Appunti critici sulla "riduzione atlantista" della Democrazia [Achtung Disertoren! #16]
L’atlantismo usa i diritti universali per abbattere diritto internazionale e Democrazia. Nascita delle Repubbliche tribali. Appunti da “Critica della democrazia occidentale” di David Graeber (pt.2)
«What makes the West western?» o, in italiano: «cosa rende l’Occidente occidentale?» si chiedeva già nel 1996 il politologo Samuel Huntington, noto per il suo studio sullo Scontro tra le civiltà: la sua risposta è che l’Occidente sarebbe patria unica della Società pluralista, elemento che per contrarietà basa la definizione del resto del mondo. Da questo pilastro deriverebbe la tanto esportata superiorità etica e morale dell’Occidente cui tutti gli altri devono aspirare ed adeguarsi, anche a costo di fornire l’intero pacchetto ideologico manu militari.
Per una critica dei diritti umani “universali”
Nella sua Critica della democrazia occidentale1 [qui trovi la prima parte dei miei appunti sparsi, ndr], l’antropologo anarchico David Graeber porta ad esempio la società indiana o il pluralismo religioso nella Cina dell’Impero Ming (1368-1644) per (di)mostrare la fallacia della tesi di Huntington, costruendo una interessante e solida tesi d’accusa per evidenziare come il “pluralismo occidentale” sia stato da sempre configurato come politica di assimilazione e omologazione di comunità e culture diverse, pena il rogo, l’omicidio, la segregazione e lo sterminio per chi si sentiva – e sente – poco quel tipo di società plurale. Che fosse la caccia a streghe ed eretici o la Guerra “umanitaria” cambia solo il periodo storico cui ci si riferisce. «Si potrebbe dunque dire», scrive Graeber (p.50)
[...]che questa [la democrazia nel senso “occidentale”, ndr] è una tradizione letteraria e filosofica, un insieme di idee partorite nell’antica Grecia, poi trasmesse per alcune migliaia di anni attraverso libri, conferenze e seminari, e infine migrate lentamente verso Occidente fino a quando il loro potenziale liberale e democratico non è stato pienamente percepito in un piccolo numero di paesi affacciati sull’Atlantico, circa uno o due secoli fa. Una volta cristallizzate in nuove istituzioni democratiche, queste idee hanno iniziato ad aprirsi un varco nel comune sentire politico e sociale dei cittadini. E alla fine i loro sostenitori, ritenendo che avessero uno status universale, hanno cercato di imporle al resto del mondo. Ma qui hanno toccato i propri limiti, perché non sono riusciti a diffonderle in aree dove già esistono tradizioni di testi egualmente potenti e rivali, come la dottrina coranica o gli insegnamenti buddisti, che inculcano altri concetti e valori
Guardare alle esperienze che correggono l’errore metodologico di Hungtingon permette di definire la Storia dell’Occidente – inteso come contenitore ideologico e area di sviluppo dell’Alleanza atlantica – come la biografia di un neonato del 19° secolo i cui principi fondativi, sostiene Graeber, sarebbero stati «nettamente respinti» (p.44), forse considerati addirittura inconcepibili, dai cittadini dell’Occidente dei secoli precedenti. In questo senso, ancora con Graeber (p.51) e con quanto avviene all’Assemblea Generale dell’Onu del 2 marzo 2022, sotto la nuova agenda armata delle capitali eurostatunitensi
alcuni celebrano l’Occidente come il luogo di nascita della libertà, altri lo denunciano come il luogo d’origine della violenza imperiale
Da occidentali ad atlantici: appunti storici sulla “nostra” Democrazia
È una parte della evoluzione delle relazioni internazionali che dalla nostra parte del mondo – innamoratasi della teoria sulla fine della Storia propinata dal politologo Francis Fukuyama agli inizi degli anni ‘90 - tendiamo ad ignorare, per poi stupirci quando il Sud Globale e ribelle decide di disubbidire agli ordini, ad esempio nazionalizzando le proprie risorse naturali per sottrarle al controllo europeo come decide di fare il Burkina Faso ad ottobre 2024 con le sue miniere d’oro, togliendole dalle mire di Paesi come la Francia.
L’area dell’Eurasia – che il professor David Ormond Wilkinson2 pone come “sistema-mondo centrale”, o “società centrale”, si sviluppa a partire dall’integrazione militare e diplomatica tra la civiltà egizia e la civiltà mesopotamica che, dal 1.500 a.C., avrebbe poi inglobato tutto il Medio Oriente “esteso”3 e l’Europa, per espandersi in un secondo momento in tutto il mondo attraverso vari processi di colonizzazione. Dal punto di vista politico propriamente detto, l’espansione mette in contatto il Califfato Omayyade con l’Impero romano-bizantino ed i blocchi di potere che all’epoca guidano Francia, Spagna e regno longobardo (568-774).
Tutte le culture che possono essere inglobate in questa ampissima area geografia, hanno concorso a formare la “cultura occidentale” che, ricorda Graeber (p.56), ad un certo punto del suo sviluppo ha sostenuto anche un processo di islamizzazione [video] dato di cui sarebbe interessante chieder conto ai puristi della razza euro-cristiana che, appare lapalissiano, ignorano lo sviluppo primordiale del loro albero genealogico dai ceppi ominidi dell’Homo Sapiens in Africa. Ma questa è un’altra storia.
Dalla “civiltà centrale” ed il suo sistema di controllo, scrive l’antropologo Michel-Rolph Trouillot in “Global Transformations: Anthropology and the Modern World”4, l’architettura socio-economica che fino a quel momento ha definito gli equilibri internazionali subisce un piccolo, grande, terremoto: l’Europa decide di separarsi da «ciò che sta a sud del Mediterraneo», sostiene Graeber (p.76). Il Mare di mezzo perde così la sua centralità anche per effetto di un movimento che, partito da est, sposta il perno del Potere globale nell’area atlantica, dando vita a quel lungo periodo di cosiddetta “pax americana” che guida il mondo dalla fine della seconda Guerra Mondiale e che, con la guerra in Ucraina e l’appoggio di Washington alle politiche di invasione di Israele in Medio Oriente, sembra essere giunto a conclusione.
Nasce così il “Sistema Nord-Atlantico”, come lo chiama Truillot: una ridefinizione geopolitica che rende il Potere mediterraneo periferico e adotta una politica di “scontro o assimilazione” con le altre civiltà, in un continuum che permette a questo nuovo sistema di accogliere contemporaneamente spinte cosmopolite e risacche reazionarie oltre che schiavistico-razziali. Una dicotomia – anzi, “la” dicotomia – che permea la società moderna creata ad immagine, interesse e somiglianza del Potere atlantico e dei suoi “valori”.
Kiev-Tel Aviv, l’asse per abbattere il diritto internazionale
In questo passaggio, per effetto della Legge di conservazione del Potere, gli Stati Uniti si autoproclamano «garanti e promotori della legalità internazionale», come scrive Giorgio Mascitelli su Nazione Indiana. Con la leva della repressione e della geopolitica in pieno controllo, Washington e i suoi alleati
puniscono ed emarginano quegli stati canaglia che non accettano il nuovo ordinamento. In quel caso, minacciando gli stati canaglia la pace, diventa legittima la guerra preventiva contro di loro. Oggi semplicemente con equilibri di forza cambiati e perso parzialmente il controllo dei mercati internazionali, l’idea della legalità internazionale non serve più o meglio non è più sostenibile (da qui la critica di parte occidentale all’Onu), ma ci vuole un ritorno all’imperialismo classico. Questo però ci dice non solo che una fase, quella della globalizzazione si è chiusa, ma che si apre una fase di guerra protratta
Una «guerra» che, tra Ucraina e Israele, sta riscrivendo le regole del diritto internazionale. Per seppellirlo, evidentemente: basti guardare al diniego preventivo annunciato dai governi atlantici al mandato d’arresto spiccato contro Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant (primo ministro e ministro della Difesa di Israele, rispettivamente) dalla Corte Penale Internazionale a novembre 2024 - il reato contestato è “crimini di guerra e contro l’umanità” per il «genocidio» a Gaza – oltre che contro il leader di Hamas Mohammed Diab Ibrahim al-Masri. Come è rimasto pura teoria il mandato d’arresto contro Vladimir Putin, spiccato dalla stessa Corte nel marzo 2023 in risposta all’invasione del territorio ucraino, è facile previsione che, dei 3 mandati spiccati questo mese, il solo realmente eseguibile sarebbe quello contro al-Masri.
Quello che dal 2022 è, nei fatti, un nuovo scontro di civiltà mosso dall’Occidente – nella sua deriva “atlantica” – prima contro la Russia via Ucraina poi al fianco di Israele contro l’Iran attraverso la destabilizzazione del Medio Oriente – deve una fondamentale parte del proprio sviluppo ad un vero e proprio scontro “narrativo”, con la chiusura dei confini giornalistici occidentali e la parallela esplosione della propaganda militarista e xenofoba interna. È una scelta ponderata, sviluppata dall’accordo tra classe politica, editori e direttori di giornali che permette, per dirla ancora con Mascitelli, di
offrire all’opinione pubblica degli occhiali rosa con cui guardare a qualsiasi iniziativa presa degli Stati Uniti o dai suoi alleati anche in palese contraddizione con i principi liberaldemocratici dichiarati[…]crea[re] un terreno favorevole all’accettazione di qualsiasi tipo di avventura militare grazie alla coscienza di essere, sul piano astratto immutabile dell’ideale, dei pacifici difensori dei diritti dell’Uomo, costretti transitoriamente a usare le maniere forti.
È quanto stiamo vedendo a Gaza in questi giorni. La rappresaglia, che ormai per dimensioni non ha più alcun rapporto con l’attacco di Hamas, serve palesemente solo a uccidere più palestinesi possibile per consentire al primo ministro israeliano di mantenere il proprio posto, incurante dell’incendio che sta propagando. Eppure la coscienza infelice occidentale può continuare a raffigurarsi come umanitaria grazie all’idea dello scontro di civiltà e questo è anche l’unico modo per non fare i conti con la disapprovazione del resto del mondo
Contro la “riduzione atlantista” della democrazia occidentale
I valori che nelle teorie accademiche si indicano come “universali” vengono così sostituiti da progetti più o meno evidenti di fondamentalismo democratico, che li riassembla prima in “occidentali” e poi nella loro versione moderna di valori “atlantici”, meri sinonimi degli interessi economici e politici dei Paesi membri dell’omonima Alleanza. A rendere possibile questa risemantizzazione è però la presenza di un pubblico sempre più chiuso nei propri confini – territoriali ma soprattutto culturali – a cui con pochissima difficoltà vengono sottratti gli strumenti necessari alla lettura critica della realtà e del mondo circostante.
L’attacco alla Democrazia-senza-aggettivi5 a cui stiamo assistendo parte da qui. Per questo sarebbe un grave errore ignorare quel gigantesco terremoto anticolonialista che si sta sviluppando fuori dai confini della urFortezza, un progetto politico ed economico in cui si mescolano l’allargamento dei Brics – e la nascita di nuove organizzazioni internazionali – e la dedollarizzazione, il processo imbastito su richiesta del Sud Africa contro Israele per il genocidio a Gaza e il voto “antistatunitense” dei Paesi non occidentali all’Assemblea Generale dell’Onu del 2 marzo 2022 sulle sanzioni alla Russia.
In questo piano di “riduzione atlantista” della democrazia, la Guerra e le armi inviate a Kiev e a Tel Aviv sono la risposta conservatrice con cui il Potere atlantico difende sé stesso dall’attacco economico – e dunque politico – portato dal Sud Globale, che mina l’egemonia - che è egemonia imperialista e globalizzata, all’intersezione tra Antonio Gramsci e Toni Negri – con cui Washington si è fatta bussola del mondo negli scorsi decenni. In questa crisi diventano più che semplice rischio la deriva autoritaria e la militarizzazione delle scelte politico-economiche, con il vecchio Potere pronto a difendere i privilegi e lo status quo opponendo violenza – costituita da quel mix tra conflitti internazionale e repressione interna a cui stiamo assistendo negli ultimi anni – a qualunque tentativo di riforma possibile, soprattutto se proveniente da istanze di democrazia diretta e multipolare.
Lo Stato-nazione corrompe la Democrazia
Quando i patrioti di Boston accesero i primi fuochi rivoluzionari, vestendosi da indiani Mohawks e gettando il té nella baia6, stavano consapevolmente dichiarando quale fosse il loro modello di libertà individuale
In Critica della democrazia occidentale, Graeber evoca la “teoria dell’influenza culturale” (p.79), che nel passaggio tra la Costituzione irochese e la base giuridica statunitense trova esecuzione perfetta. In un’altra parte del libro, l’antropologo anarchico mette in luce come il processo che dalle “zone di improvvisazione culturale” (p.90) extrastatali forma primo lo Stato “occidentale” e poi la sua “riduzione atlantista” sia però un processo di assimilazione e non una semplice “influenza” culturale.
Con l’ingresso dell’entità “Stato” nell’equazione, il processo di formazione della Democrazia e delle sue pratiche subisce una piccola, ma significativa, deviazione dall’idea originale, diventando una evoluzione a forte trazione conflittuale, in cui le classi dirigenti provano prima ad ignorare ciò che avviene e si sviluppa negli spazi extrastatali, poi a «calpestarli» e, infine, quando queste istanze prendono entrano nelle rivendicazioni dei popoli, a muovere loro guerra. È un processo di «rifondazione e recupero democratico» (p.90) che costringe gli Stati-nazione – per definizione forma non-democratica di organizzazione delle comunità – a concedere una serie di riforme che queste richiedono con la sollevazione, soprattutto armata e che si sviluppa secondo 2 direttrici, spesso intersecatesi fra loro:
da un lato un conflitto civile – inteso cioè tra popolo ed «élites» - volto ad “educare” le popolazioni non atlantiche all’offerta di valori ed ideologie degli esportatori
dall’altro lato quella che Graeber definisce (p.90) “fusione” delle «influenze culturali di ogni parte del mondo» nelle capitali europee, in quella «tradizione che alla fine sarebbe diventata l’Occidente»
L’Occidente atlantico è una “Repubblica tribale”
In Critica della democrazia occidentale Graeber, per rispondere alla iniziale domanda di Samuel Huntington, pone un altro tassello per smontare l’idea che l’Occidente atlantico e atlantista sia davvero nato in Occidente: «Ancora prima che Colombo facesse vela verso le Americhe», scrive infatti l’antropologo anarchico (p.91), in Africa Occidentale le enclaves costiere, centrali nel sistema commerciale internazionale del 15° secolo, diventano laboratorio di democrazia per il costante transito di mercanti e avventurieri di ogni risma, nazionalità, lingua e religione, che facilitano la libera circolazione di idee e modelli culturali, che in questo modo si mescolano e si influenzano l’un l’altro.
All’interno di questo laboratorio, frutto dell’incontro tra comunità profondamente eterogenee per credo religioso e valori sociali – come il Portogallo, capitalista, e Paesi come gli attuali Senegal, Gambia o Benin in cui si sviluppano comunità pre-capitaliste – gli scambi commerciali sono regolati attraverso l’adozione di feticci, oggetti creati o introdotti dal libero accordo tra i contraenti come “assicurazione mistica” per la buona riuscita nel tempo di tali scambi: «chi violava i patti», scrive Graeber (p.91), «sarebbe incorso nel potere distruttivo di questi oggetti» che, dunque, in quella costruzione culturale hanno anche il potere-compito di «evitare la guerra di tutti contro tutti».
Se intendiamo la Democrazia alla maniera delle enclaves dell’Africa occidentale, cioè come pubbliche discussioni tra persone riunitesi liberamente per prendere decisioni su un determinato argomento – senza la coercizione, anche elettorale, di un re, un imperatore o un governo – quella democratica diventa pratica comune in ogni angolo del globo, comprese quelle strutture organizzative verticali dell’India o dell’Asia meridionale dove, riporta Graeber (p.92), gli uomini che lavoravano come guerrieri avevano anche il compito di riunirsi in «assemblee comunitarie» che «prendevano le decisioni importanti deliberando collettivamente». Un potere legislativo non rappresentativo né delegato, nei fatti.
Ad un certo punto della loro evoluzione storica, le pratiche sviluppate all’interno di queste zone di improvvisazione (democratica) culturale vengono cooptate dalle classi dirigenti europee per i propri progetti espansionistici, legati all’organizzazione sociale che chiamiamo “Stato-nazione” guidato da un “governo” il cui compito è amministrare «una popolazione uniforme con la stessa lingua e lo stesso sistema giuridico-burocratico»: è l’antitesi stessa della democrazia e, soprattutto, del suo pilastro pluralista. Nessuno degli esempi portati da Graeber, nemmeno quella società ateniese considerata culla ufficiale della civiltà occidentale, è infatti una democrazia perfetta perché nessuno di questi esempi offriva diritti davvero “universali” che, allora come oggi, erano e sono appannaggio di una cerchia ristretta di persone. Erano, e sono, “democrature del privilegio” in cui
la schiacciante maggioranza della popolazione – le donne, gli schiavi e i cosiddetti esclusi – era priva di ogni diritto7
«Repubbliche tribali», le chiama Graeber riprendendo la definizione dagli storici. Il quadro, sotto questa lente, cambia profondamente: può un sistema che si definisce democratico essere però una “democrazia dell’esclusione”? Oppure, come è invece palese dagli ultimi 2 anni di relazioni internazionali, la difesa – naturalmente armata – dei valori “occidentali”, oltre che essere un gigantesco favore economico-finanziario al complesso militar-industriale è, nei fatti, nient’altro che la dichiarazione di Guerra perpetua di una Repubblica tribale, la “nostra”, ormai anacronistica e morente?
Bonus Track: Arundhati Roy e l’assedio dell’Impero
In War Talk8, la scrittrice e attivista Arundhati Roy scrive:</p>
La nostra strategia dovrebbe essere non solo quella di affrontare l’impero, ma di assediarlo. Privarlo dell’ossigeno. Svergognarlo. Prenderlo in giro. Con la nostra arte, la nostra musica, la nostra letteratura, la nostra testardaggine, la nostra gioia, la nostra genialità, la nostra pura implacabilità – e la nostra capacità di raccontare le nostre storie. Storie che sono diverse da quelle con cui ci viene fatto il lavaggio del cervello
La rivoluzione aziendale crollerà se ci rifiutiamo di comprare quello che stanno vendendo – le loro idee, la loro visione della storia, le loro guerre, le loro armi, la loro nozione di inevitabilità
Ricordate questo: noi siamo molti e loro sono pochi. Hanno bisogno di noi più di quanto noi abbiamo bisogno di loro.
Un altro mondo non solo è possibile, ma sta arrivando. In un giorno tranquillo, posso sentire il suo respiro
Questo articolo fa parte della serie "Achtung Disertoren!", l'approfondimento di Inchiostro Politico su antimilitarismo, guerra e diserzione sullo sfondo della guerra in Ucraina. Trovi l’intero approfondimento nell’apposit sezione in homepage. I grassetti nelle citazioni sono miei, dove non diversamente specificato.
Note:
David Graeber, “There never was a West, or Democracy emerges from the spaces in between”, Chico (California), AkPress, 2019. In italiano: “Critica alla democrazia occidentale”, traduzione Alberto Prunetti, Milano, 2012, p.74. David Graeber è stato un antropologo, dichiaratamente anarchico, noto al grande pubblico soprattutto per essere tra gli intellettuali di riferimento del movimento Occupy
David Ormond Wilkinson è stato professore di Scienze politiche all’UCLA, Università della California, Los Angeles. La sua teoria più nota definisce il concetto di civilizzazione secondo criteri di connessione e non secondo quelli di condivisione culturale. In questo senso, la civilizzazione sarebbe un “sistema-mondo” – autosufficiente rispetto agli altri perché in grado di procurarsi da sé i beni essenziali, per dirla con il sociologo Immanuel Wallerstein – nato dall’integrazione iniziale tra area mesopotamica ed Egitto intorno al 1500 a.C. e diffusa fino al raggiungimento dell’Estremo Oriente a partire dal 1850
Detto anche “Grande Medio Oriente”, comprende un’ampia area che si sviluppa in senso latitudinale dal Caucaso al Maghreb e, in senso longitudinale, dalla Georgia alla Somalia
Michel-Rolph Trouillot, “Global Transformations: Anthropology and the Modern World”, New York, Palgrave MacMillan (gruppo Springer), 2003
Il richiamo esplicito è al cosiddetto “anarchismo senza aggettivi” teorizzato da Michail Bakunin nel 1876 (qui spiegato dall’anarchico spagnolo Fernando Tarrída del Mármol) per la quale tutte le diverse correnti dell’anarchia devono trovare il modo di convivere all’interno della teoria generale, appunto “senza aggettivi”, per focalizzare l’attenzione contro quelle norme, politiche e prassi della società che è necessario contrastare e cambiare (società gerarchica, presenza dello Stato-nazione, capitalismo, violenza di genere, distruzione dell’ambiente e così via). Una democrazia “senza aggettivi” ricalca tale ideale, formando uno strumento di lotta per il raggiungimento di uno scopo – dare potere al popolo – che prescinde dal tipo di democrazia che si sceglie di adottare. O almeno così dovrebbe
Graeber, op.cit., p.79. Il riferimento è al “Boston Tea Party”, la rivolta che il 16 dicembre 1773 porta un gruppo di patrioti americani – travestiti da indiani Mohawk, una delle 6 tribù che compongono la “Confederazione Irochese” – a protestare contro una serie di imposizioni fiscali della Corona britannica nelle colonie, come la tassa sullo zucchero o quella per il mantenimento dei soldati, gettando in mare intere casse di tè della East India Company. Dal punto di vista storico è considerato il momento in cui inizia la guerra di Indipendenza che, il 4 luglio 1776, porterà alla Dichiarazione d’indipendenza
Graeber, op.cit., p.95
Arundhati Roy, “War Talk”, Cambridge, South End Press, 2003