La Guerra è un indotto climalterante [#GreenWarZone/2]
Armi&Petrolio muovono il mondo, mentre si stracciano accordi sul clima tra debito estero, emissioni climalteranti e colonialismo “green”. Come si spegne un incendio con un proiettile? Il caso Ecuador

In un’epoca in cui le nazioni giustificano la guerra sulla base di supposti benefici per la sicurezza, danneggiare il pianeta non è una gigantesca minaccia alla nostra sicurezza collettiva?
A porre la domanda è Ali Rae, giornalista di Al Jazeera, in un episodio della sua trasmissione All Hail the Planet incentrato sull’impatto ambientale del complesso militar-industriale. A rispondere sono:
Neta C. Crawford, politologa e docente di relazioni internazionali all’Università di Oxford oltre che coordinatrice del progetto Costs of the War della Brown University di Providence, Rhode Island (Stati Uniti)
Nick Buxton, ricercatore del Transnational Institute
Marwa Daoudy, professoressa di scienze politiche e politiche del Mediterraneo all’Università di Georgetown (Stati Uniti)
“Emissioni militari climalteranti”. Sì, ma in che senso?
Nel (non) calcolo dell’impatto ambientale della Guerra e del complesso militar-industriale rientrerebbero non solo gli elementi inquinanti più evidenti – legati all’impiego di proiettili, bombe e missili o al movimento delle truppe – ma anche elementi come il rifornimento di carburanti, i danni derivanti da rifiuti e macerie (che a loro volta sono il risultato dei bombardamenti) o i danni da costruzione di basi e insediamenti militari, così come le emissioni del taglio illegale del legno o l’inquinamento delle risorse naturali, ad iniziare dall’acqua, che ha già avuto il proprio ruolo nelle guerre in Ucraina, Yemen, Siria e nel conflitto tra Israele e Palestina, come evidenzia Serena Tarabini su EconomiaCircolare.com. «Il calcolo del costo della Guerra non include le emissioni delle cose che vengono fatte esplodere o che vengono bruciate», evidenzia Neta Crawford ad Ali Rae.

Tenere fuori dai calcoli e dai discorsi sull’impatto ambientale le emissioni climalteranti legate alla guerra è uno dei più evidenti indizi del rapporto di sudditanza che la classe politica nutre nei confronti del complesso militar-industriale. Basti pensare che il Protocollo di Kyoto – il programma principale al mondo in tema di riduzione dei gas serra e contrasto al surriscaldamento globale, firmato nel 1997 ed entrato in vigore solo nel 2005 – di fatto esenta l’impatto sul clima del settore delle armi inteso nel suo senso più generale, sia della produzione che del loro impiego. E questa è una scelta precisa, non una distrazione, della classe politica.
Alle «emissioni provenienti dall’uso di armi e missili» di cui parla Nick Buxton, Marwa Daoudy aggiunge elementi come l’impatto delle “open air pits”, le fosse a cielo aperto in cui si bruciano i rifiuti, usate dai militari in Paesi come Iraq, Afghanistan, Siria o Pakistan; oppure la pratica di non ripulire le aree teatro di guerra – per «negligenza», sottolinea la professoressa – lasciando sul terreno residui bellici inesplosi risalenti anche alle guerre mondiali; o ancora gli effetti dei test sulle armi nucleari, come quelli compiuti nelle Isole Marshall, nell’Oceano Pacifico, tra gli anni ‘40-’50 del ‘900, nelle riserve indiane o ancora i test sulle armi chimiche realizzate nelle basi militari in Sardegna.
Per approfondire:
“Colonialismo nucleare” (test nucleari statunitensi negli atolli di Bikini ed Enewetak) – Environmental Justice Atlas, 20 dicembre 2018
I test nucleari nella storia – SenzAtomica.it, 1 settembre 2023
I residui radioattivi dei test nucleari sono arrivati in fondo all’oceano – Adam Levy, Scientific American (qui in edizione tradotta da leScienze.it), 16 maggio 2019
Fare guerra all’ambiente è ancora un crimine di Guerra?
«Parte della guerra è distruggere le capacità ambientali delle nazioni», rileva Buxton. Una frase che trova conferma nel diritto penale internazionale – oggi distrutto dal comportamento atlantico nella guerra in Ucraina e nell’appoggio alla campagna espansionistica di Israele all’intero Medio Oriente - tanto lo Statuto di Roma (art.8(2)(b)(iv)1), che tra le altre regola l’operato della Corte Penale Internazionale, quanto la Convenzione di Ginevra (artt.35 e 55 del Primo protocollo addizionale del 1977) sostengono che è da considerarsi crimine di guerra qualunque azione bellica che causi, come recita l’art.8(2)(b)(iv)
danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale, che siano manifestatamente eccessivi rispetto all’insieme dei concreti e diretti vantaggi militari previsti
Il Primo protocollo, agli artt.35 e 55, afferma lo stesso principio:
35.[…]È vietato l’impiego di metodi o mezzi di guerra concepiti con lo scopo di provocare, o dai quali ci si può attendere che provochino, danni estesi e durevoli all’ambiente naturale
[…]
55.1. – La guerra sarà condotta curando di proteggere l’ambiente naturale contro danni estesi, durevoli e gravi. Tale protezione comprende il divieto di impiegare metodi o mezzi di guerra concepiti per causare o dai quali ci si può attendere che causino danni del genere all’ambiente naturale, compromettendo, in tal modo, la salute o la sopravvivenza della popolazione.
55.2 – Sono vietati gli attacchi contro l’ambiente naturale a titolo di rappresaglia
Entrambi i documenti definiscono il discrimine della consapevolezza – chi muove l’attacco deve sapere che sta «deliberatamente» causando un danno ambientale che, a sua volta, deve essere «manifestatamente eccessivo» rispetto al vantaggio militare acquisibile: è chiaro che, sotto una dottrina delle relazioni internazionali come quella attuale, i due ammonimenti rimangono pura teoria anche per la evidente difficoltà di definire i due criteri in maniera oggettiva e insindacabile. A rendere difficile l’applicazione reale dell’articolo è anche la possibilità di applicarne il dettato ai soli conflitti internazionali: una proxy-war o un conflitto civile tra popolo e governo, ad esempio, pur potendo causare gli stessi danni ambientali, non vengono contemplati dalla potenziale protezione ambientale fissata nello Statuto.
Dal 2016 proprio la Corte Penale Internazionale prova a sopperire alla scarsa applicabilità dell’art.8 dello Statuto di Roma con il Policy Paper on Case Selection and Prioritisation[.pdf], con il quale si dà priorità alle indagini su crimini perpetrati attraverso condotte dannose per l’ambiente: non è ancora la definizione di un reato a sé stante, quello di “ecocidio”: ancora oggi infatti le indagini su tali reati vengono realizzate sotto le più ampie fattispecie di “genocidio”, “crimini contro l’umanità”, “crimini di guerra” o “crimini di aggressione”, perché la stessa CPI sostiene come in un conflitto non possa esserci crimine ambientale che non sia anche crimine contro l’uomo e, di conseguenza, rientrante in una delle 4 fattispecie precedenti.
Negli anni altri documenti del diritto internazionale si sono interessati alla tutela dell’ambiente in tempi di guerra, come la Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo del 1992 [.pdf] o la Convenzione “Enmod” sul “divieto dell’uso di tecniche di modifica dell’ambiente a fini militari o ad ogni altro scopo ostile” – firmata nel maggio 1977 sullo scandalo dell’uso dell’Agente arancio in Vietnam ed entrata in vigore nell’ottobre 1978 – ma come ben dimostra il comportamento atlantico nei confronti di Israele e delle sue politiche, il diritto internazionale ormai è ridimensionato a mero esame universitario.
Per approfondire:
L’impatto ambientale dei conflitti armati: prospettive del nuovo crimine internazionale di ecocidio – Angela Mattiello, Elisabetta Belardo, Servizio Affari Internazionali del Senato della Repubblica italiana, nota n.3 [.pdf]
Fuel of War: se il carburante diventa il perno della Guerra
Tutti gli intervistati di Ali Rae convengono su un punto: qualunque discorso sul rapporto tra armi e ambiente, tra complesso militar-industriale, guerra e cambiamento climatico non può ignorare la questione del carburante, allo stesso tempo scusa ed arma per la guerra, oltre che per la sua centralità “tecnica”: senza carburante non si muoverebbe un solo veicolo. In Iraq come in Ucraina, tanto le forze governative quanto i gruppi ribelli bruciano il carburante per controllare l’avanzata delle truppe, o colpiscono le cisterne di petrolio per tagliarne i rifornimenti. Cosa questo significhi lo abbiamo visto a fine 2024 proprio nel nostro Paese, con l’esplosione al deposito di carburante Eni a Calenzano (Firenze, 9 dicembre) su cui è calato il silenzio mediatico. D’altronde si sa, nello stivale non si parla male del cane a sei zampe, soprattutto sulla “grande” stampa.
Per approfondire:
Eni si prepara alle proteste – Andrea Turco, aSud.net
Calenzano: petrolio e gas come strumenti di ricatto – Irene De Marco, aSud.net
Nella vittoria – o nella sconfitta – della guerra moderna, il carburante assume un ruolo strategico tanto quanto ricevere e usare le armi più avanzate a livello tecnologico o saper muovere le truppe sul campo di battaglia.
Il ruolo di poliziotto del mondo svolto, per autoproclamazione, da Washington non sarebbe ad esempio possibile senza il carburante che muove, letteralmente, la sua gigantesca macchina bellica ponendo gli Stati Uniti come il Paese con il più alto volume di “emissioni militari” al mondo: secondo i dati del progetto Cost of the War, nel solo 2017 Washington impiega 85 milioni di barili di carburante, necessari ad assicurare l’attività delle 800 basi militari distribuite in 80 Paesi2, ognuna delle quali con uno specifico – e non certo irrisorio – impatto carbonifero e ambientale.
Con queste dimensioni la macchina militare degli Stati Uniti è un gigante climalterante da 52 milioni di tonnellate di emissioni, derivanti soprattutto dalle operazioni militari (70%3), capace di concorrere alla crisi climatica più di interi Paesi come Portogallo o Svezia. Nel 2022, con dati di questo tipo, il Dipartimento della Difesa annuncia la svolta “ambientalista”: nasce la Strategia per il clima che, tra le altre, prevede la riduzione delle basi estere, la sostituzione dei veicoli “non combattenti” con una loro versione elettrica entro il 2035 e la sempre maggior adozione di fonti rinnovabili e nucleari al posto delle fonti a carbone.
Più che su una transizione ecologica puramente tecnica, sostiene Neta Crawford, il vero punto dirimente dovrebbe essere fissato sul chiedersi se le tante missioni e operazioni militari estere siano davvero necessarie o se, in riferimento agli Stati Uniti, queste non siano che una mera e anacronistica «eredità» della Guerra Fredda e della Guerra al (T)Errore post 9/11. La questione è facilmente allargabile a qualunque Paese abbia missioni militari all’estero, Italia compresa. Bisogna cioè chiedersi, con Crawford, se le missioni militari all’estero non siano strumenti di puro marketing bellico, utile solo a reiterare la percezione di potenza muscolare del Paese che le porta avanti, soprattutto in tempi in cui – insegna Stuxnet – un attentato può essere portato ad una potenza straniera comodamente seduti, joystick in mano, sul divano di casa.
La Guerra è un indotto climalterante
Dati alla mano, la Guerra è un fattore climalterante nella sua essenza più profonda. Qualunque svolta “ecologica” in tale ambito diventa nient’altro che greenwashing4, senza alcun vero interesse per la difesa dell’ambiente né della vita umana, qualunque siano lo Stato-nazione e l’esercito che le fomentano. Politiche che modificano la superficie senza scalfire le fondamenta, utili a conquistare titoli sui giornali e indirizzare la percezione dell’(e)lettore – “colonizzazione pervasiva delle menti”, la definisce la rivista canadese Adbusters5 – che trasforma la coscienza critica in puro tifo da stadio con effetti diretti, e negativi, sulla tenuta della Democrazia.
«Ogni volta che la spesa militare aumenta aumentano anche le emissioni “belliche”», denuncia Buxton: appare così inutile l’adozione da parte delle Nazioni Unite di principi per “difendere” l’ambiente dalla Guerra e, soprattutto, da un indotto “climalterante” che – creatosi proprio intorno al carburante – lega gli interessi del complesso militar-industriale a quelli delle compagnie petrolifere, forgiando così un sodalizio bellico tra i due sistemi di Potere oggi più potenti e pervasivi al mondo (insieme al Potere della grande finanza speculativa). L’intero giornalismo di guerra potrebbe muoversi nella cronaca di queste due sole aree politico-commerciali per raccontare, nel dettaglio, l’intera biografia della Guerra moderna.
Armi&Petrolio: una pericolosa saldatura di Potere
Tra armi e petrolio, più in generale tra armi e combustibili fossili si instaura un rapporto di codipendenza: senza i combustibili fossili – e soprattutto senza il petrolio, come abbiamo visto – il complesso militar-industriale non potrebbe spostare armi e truppe ma, allo stesso tempo, l’industria dei combustibili fossili non potrebbe lavorare in sicurezza senza la protezione armata fornita dall’indotto delle armi.
Riporta ad esempio Patrick Bigger su TurningPoint che la guerra in Yemen non nasce su questioni umanitarie – nessuna guerra lo fa, d’altronde – ma come strumento per bloccare l’ascesa del movimento guerrigliero sciita Ansar Allah/Houti e proteggere gli interessi nell’area di Israele e Arabia Saudita, alleati-clienti del Potere atlantico in Medio Oriente. Lo stesso principio viene usato per mettere in sicurezza il commercio marittimo globale, per assicurare l’arrivo dei beni di consumo in Europa o le cisterne di petrolio riempite nel Golfo Persico. Il “porto mobile” che gli Stati Uniti organizzano per far arrivare gli aiuti umanitari a Gaza, dopo la chiusura del valico di Rafah come parte della genocida risposta israeliana agli attacchi del 7 ottobre 2023, continua Bigger, sarebbe nient’altro che un «punto di organizzazione per le esplorazioni offshore di gas». [The Three Dimensions of Militarism in the Climate Crisis].
All’interno di questa sporca alleanza si inscrive l’uso della violenza organizzata dello Stato nei confronti di movimenti e singoli attivisti che lottano per difendere l’ambiente e, di conseguenza, la vita sul pianeta. Una violenza che, nei casi più gravi, oltre alla criminalizzazione penale fatta di arresti, fermi e processi – come quelli che in Italia sono oggi aperti contro Extinction Rebellion o Ultima Generazione, ma anche sull’operato dell’Eni – aggiunge alla repressione antiambientalista anche gli abusi delle forze di polizia e dei gruppi paramilitari, tanto nei Paesi a democrazia formale quanto nei regimi autoritari.
In chiave intersezionale, anche espandere l’anticultura razzista ha una base di appoggio nella lotta di governi, aziende e multinazionali contro Madre Terra e, di conseguenza, contro diritti democratici fondamentali come il diritto alla salute e alla libera circolazione delle persone.
Per approfondire:
Israel is pillaging not just Gaza’s cities but also its waters – Sultan Barakat, alJazeera, 6 marzo 2024
Milano: Extinction Rebellion a processo per aver contestato le conferenze sul clima – Comunicato stampa Extinction Rebellion, 24 novembre 2024
Oltre 30 persone espulse da Roma: Extinction Rebellion viola pubblicamente i fogli di via perché illegittimi – Comunicato stampa Extinction Rebellion, 23 novembre 2024
Processo a Ultima Generazione: è scontro politico – Luca Capponi, Avvenire, 12 maggio 2023
Ultima generazione: «Trattati come criminali». Attivisti a processo – Adriana Pollice, ilManifesto, 8 dicembre 2023
No alla sorveglianza speciale usata contro i mafiosi per un attivista di Ultima generazione – Kevin Carboni, Wired, 10 gennaio 2023
Eni denuncia Antonio Tricarico di ReCommon per l’intervista a Report – ReCommon, 18 novembre 2024
Il 16 febbraio c’è la prima udienza contro ENI – Greenpeace Italia, 15 febbraio 2024
Eni-Nigeria, la Cassazione mette la parola fine al processo – Patrizia Maciocchi, ilSole24Ore, 6 giugno 2024
Processo Eni-Nigeria: condannati i pm De Pasquale e Spadaro, hanno nascosto prove – Andrea Siravo, La Stampa, 8 ottobre 2024
I popoli indigeni sono i migliori conservazionisti – Campagna Survival
Se il clima diventa un fattore di politica “criminale”
Più che al concetto di intersezionalità i gruppi di Potere si muovono all’interno di un più antico concetto di guerra di classe, usando contro le “classi pericolose”, come le definisce nel suo omonimo libro lo storico Enzo Ciconte6, un programma organico composto di militarizzazione della società – sempre più invasivo, tanto da essere pericolosamente entrato persino nelle scuole - criminalizzazione dei corpi migranti attraverso il business delle frontiere armate ed ”apartheid climatico”, definendo così un sistema in cui chi scappa da un Paese in guerra o colpito da eventi climatici estremi si dirige verso forme e pratiche di violenza patrocinata dallo Stato, discriminazione ed esclusione sul limes del Paese verso cui ci si rivolge. È qui che, dal lato delle lotte dei popoli, si crea la saldatura – o l’intersezione, appunto – tra ambientalismo e antirazzismo.
Il bluff umanitarista è qui espresso al massimo livello: le guerre diventano l’attività perfetta per nascondere lo sfruttamento delle risorse naturali e saldare l’alleanza politico-commerciale tra combustibili fossili e armi: il profitto che deriva dalla militarizzazione delle frontiere, ad esempio, è basato sull’estrazione di minerali indispensabili tanto alla produzione delle armi quanto alla creazione dei sistemi digitali di sorveglianza – compresi quelli affidati all’intelligenza artificiale – che vengono sempre più usati sia per il controllo dei processi migratori dalle terre a svantaggio quanto nel controllo della popolazione carceraria, centri di identificazione antimigranti compresi.
Per approfondire:
Trattato sull’Architettura dell’Oppressione – un approfondimento di Inchiostro Politico
Il rapporto tra oppressione ed Intelligenza Artificiale è alla base di strumenti come il sistema “Lavender”, usato contro la popolazione palestinese da Israele che, lasciando proprio all’IA la scelta degli obiettivi da colpire – arrestare, occupare illegalmente, bombardare a seconda delle necessità – commette così un crimine senza colpevole e , di conseguenza, continua ad agire contra legem nella più completa impunità e, anzi, con l’appoggio delle “grandi” democrazie atlantiche.
Secondo un rapporto pubblicato nel settembre 2023 da Global Witness7, negli ultimi 10 anni si è registrato l’omicidio di un “difensore dell’ambiente” ogni 2 giorni, con una vera e propria guerra paramilitare dichiarata in America Latina. Se difendere l’ambiente diventa un crimine – un crimine di classe e “popolare”, commesso dal popolo per difendere il popolo e Madre Terra – per chi gestisce Legge&Ordine diventa normale emanare provvedimenti per reprimere la lotta di chi tale crimine commette, per soffocare la voce di chi denuncia che ad essere criminale e ingiusta è proprio la Legge. Emblematico in tal senso è la repressione delle proteste contro le “Grandi Opere Inutili”8 prevista dal disegno di legge 1660 in discussione nel Parlamento italiano.[Standing firm – Global Witness]
Come lo spegni un incendio con un proiettile?
È sotto questa stessa ottica politica, fatta di decoro e vetri rotti, che si arma la forza dell’ordine. Anche quando è proprio quell’Ordine a commettere crimini che non possono essere più sanati come la distruzione della Natura. In quella che Ali Rae chiama «securitizzazione della crisi climatica», trova una sua logica che la risposta militarista sia sempre più la prima ad essere adottata anche contro le emergenze climatiche.[We can’t fight the climate crisis without fighting militarism]. Una evoluzione di quella teoria dello Shock economico9 che, scrive Patrick Bigger (traduzione mia, ndr)
diventa evidente tornando al 2005 all’indomani dell’uragano Katrina quando polizia, vigilantes, e, infine la Guardia Nazionale statunitense vennero inviate per proteggere le attività commerciali dai saccheggiatori mentre nello stesso tempo, gli aiuti hanno impiegato settimane ad arrivare e le persone morivano mentre erano nascoste nei loro attici aspettando che l’alluvione si ritirasse.
[…]In assenza di significativi investimenti nel sistema assistenziale e sociale e nei sistemi per supportarli, polizia e militari continueranno ad essere la risposta di default finché i disastri legati al cambiamento climatico continueranno ad intensificarsi, negli Stati Uniti e nel resto del mondo.
Dal Green Deal al War Deal: come (ri)nasce una guerra di classe
Va inserita in questa guerra di classe a tema ambiente la tentazione europea di abbandonare il “Green Deal” avvertita dalla Commissione von der Leyen 2, che invero ne era stata promotrice nella sua prima versione seguendo il modello – o l’imposizione, a seconda della chiave di lettura che se ne vuol dare – del quasi omonimo progetto ambientale statunitense, altrettanto abbandonato con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.
Dopo aver fatto trapelare notizie sulle ingenti perdite di denaro dovute alla crisi climatica, la Commissione punta a riscrivere al ribasso l’Accordo europeo sull’Ambiente: nel solo 2023, stando ad uno studio della Banca Mondiale, i disastri connessi al clima hanno generato perdite per le imprese europee di circa 77 miliardi di euro. nonostante questo, sempre nel 2023 quelle stesse istituzioni europee destinano 300 miliardi alla spesa militare, uno dei principali fattori di sviluppo delle crisi ambientali. Su Valori.it Luca Pisapia individua 3 elementi che l’Unione-urFortezza mira a ridefinire:
Corporate Sustainability Reporting Directive (Csrd), che formalizza un metodo di rendicontazione per le imprese europee che ne indichi la sostenibilità ambientale
Corporate Sustainability Due Diligence Directive (Csddd o Cs3d), che introduce obblighi legali per le grandi imprese al fine di impedire violazioni dei diritti umani o pratiche contro l’ambiente in tutta la catena di fornitura
La controversa tassonomia europea, ovvero la lista degli investimenti considerati dall’Unione Europea sostenibili dal punto di vista ambientale che, però, subisce già oggi gli indirizzi e le necessità politiche delle istituzioni europee
La rivisitazione al ribasso di questi standard, che significa un forte allascamento di vincoli e controlli ambientali, sanitari e salariali da questa parte dell’Oceano Atlantico, permette alla fine del 2024 all’Unione di firmare l’accordo con il Mercosur – il mercato comune dell’America Latina di cui fanno parte Argentina, Bolivia, Brasile, Paraguay e Uruguay – che ha leggi e regole molto meno restrittive rispetto al Vecchio Continente.
Debito, clima e benessere. Un approccio indigeno ai privilegi del Nord del mondo
Uscendo dai confini europei, in questa guerra tra capitalismo e popolo che si gioca anche sulla crisi climatica e le questioni ambientali vanno inseriti anche gli aggiustamenti strutturali che Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale impongono ai Paesi sfruttati del Sud Globale – e non solo – per rientrare dai debiti contratti con le economie ricche e sfruttatrici del mondo ricco e sfruttatore.
Il ruolo politico delle grandi istituzioni economiche internazionali è denunciato da decenni dai movimenti altermondialisti, ma rimane ancora centrale nella gestione delle relazioni internazionali e, dunque, nell’architettura del mondo moderno e dei suoi equilibri. Da decenni la ricetta è sempre la stessa: austerità economico-finanziaria per ripagare i debiti esteri attraverso ampi tagli alla spesa sociale interna; cancellazione delle tutele ambientali e socio-economiche per rendere appetibili i Paesi debitori alle grandi multinazionali dei Paesi creditori, che possono così trasferire produzioni e commerci che il mondo non-atlantico ha sempre considerato come veri e propri atti di terrorismo internazionale, come già affermava Tiziano Terzani nel 2001.
La vita dell’umanità, in special modo delle persone del sud [globale, ndr], dipende dal modo in cui l’umanità sceglie la strada per risolvere la crisi climatica prodotta dal benessere del nord [del mondo, ndr]
valuta Gustavo Petro, Presidente ex guerrigliero della Colombia [The Global 1933], che evidenzia anche come
Gaza è solo il primo esperimento nel considerarci tutti disponibili
Ecuador-Ucraina, cartoline dalla Democrazia sotto assedio
In questo quadro, l’esempio dell’Ecuador riportato nell’articolo di Patrick Bigger – di cui parleremo in un articolo a parte – rappresenta un perfetto esempio di come queste politiche concorrano a mettere la “democrazia sotto assedio”, per dirla con il titolo di un omonimo libro del 2022 dell’economista Emiliano Brancaccio10: chiamato nell’agosto 2023 a referendum, il popolo ecuadoriano decide di proteggere la riserva naturale di Yasuni dalle estrazioni di petrolio (58% dei voti), risorsa da cui dipende circa il 40% dell’export nazionale, come scrive Alejandra Padín-Dujon in un articolo per la London School of Ecoonmics. La decisione però non piace a chi, sull’oro nero del Paese, ha già imbastito i propri commerci.[Ecuadorians voted to protect nature. A Big Three credit rating agency penalised them for it].
È lo stesso atteggiamento che porta alla guerra in Ucraina, che si sviluppa a partire dalla decisione dell’area orientale del Paese di tornare sotto l’influenza russa: è, guarda caso, la parte del territorio nazionale più ricca di risorse naturali da estrarre e sfruttare. Per questo i gruppi di Potere atlantici intervengono, già a partire dal 2014: non ci sono questioni di diritti umani da tutelare – anzi, come sappiamo le “grandi” democrazie dei Paesi ricchi sostengono fin dal primo giorno i gruppi ucraini nazifascisti – ma puro e semplice profitto. Che è poi l’unico, vero, motivo per cui si scatenano le guerre.
Se nell’ormai ex granaio d’Europa il profitto atlantico viene difeso manu militari, l’Ecuador viene punito con una combinazione tra guerra legale – attraverso la citazione dinanzi alla corte ISDS11 - e pressioni economiche: agenzie di rating come Fitch declassano l’affidabilità finanziaria del Paese, in realtà già bassa (da B- a CCC+), rendendo più difficile per il governo nazionale promuovere lo sviluppo interno ed attrarre investimenti esteri e «penalizzando l’azione democratica» anche nella difesa dell’ambiente, sottolinea Padín-Dujon; l’FMI decide di aumentare gli interessi sul debito contratto e tagliare i servizi sanitari, nello stesso momento in cui il Paese è investito dai contagi per la sindemia della Sars-CoV-2.
Le armi sono un Potere “servente”
Il complesso militar-industriale ha una particolarità: è un Potere “servente”, che ha bisogno di un motivo, cioè di un altro gruppo di Potere, per essere legittimato ad operare. Persino le potenti dittature militari, che caratterizzano ogni epoca della Storia moderna, niente potrebbero senza quella parte della classe dominante che si ritiene messa in pericolo dalle rivolte sociali o dall’evoluzione della Storia umana. Non è affatto un caso che questo Potere “attivante”, questo Potere “puparo”, sia sempre o quasi sempre di natura economico-finanziaria.
La guerra in Ucraina non sarebbe esistita senza il pericolo, avvertito dai gruppi del Potere economico atlantici, che le risorse naturali potessero essere controllate dal “nemico” russo come risultato del referendum del 2014, così come l’Afghanistan non avrebbe tolto il sonno a più di un Presidente se le case farmaceutiche degli Stati Uniti non avessero rischiato di perdere l’accesso al prezioso oppio afghano, base di molte medicine. Ancora: il fascismo italiano sarebbe rimasto solo una banda di criminali se i gruppi economici di inizio ‘900 non fossero stati terrorizzati dalle rivolte popolari del “biennio rosso” (1919-1921) facendo pressione affinché il governo risolvesse la situazione in loro favore.
Oggi non è casuale che uno dei gruppi economici più attivi nel settore lobbistico – in sintesi: nella pressione del Potere economico sul Potere politico – sia quello dei combustibili fossili, come (di)mostrano le recenti conferenze della Cop28 e Cop29. Per il vecchio sistema degli equilibri del Potere la minaccia arriva da un futuro, ad oggi futuribile, mondo ad energia rinnovabile, contro cui lavorano i lobbisti che del Potere “fossile” si fanno ancelle, i politici che proteggono quel Potere e i giornali che da questo prendono fondi e propaganda pur facendo appelli accorati alla vera libertà del giornalismo.
Le politiche “green” tutelano davvero l’ambiente?
Quella temuta dal Potere “fossile” è, però, una minaccia apparente, farlocca, che non renderà affatto il mondo un posto migliore. Anzi: il passaggio tra il controllo del Potere a combustione fossile e quello del Potere a capitalismo verde non porterà alla fine della Guerra tout court, né ad un sistema sociale privo di sfruttamento dell’uomo e della natura.
Le pale eoliche hanno bisogno di una forte opera di cementificazione [+1] sotto terra per restare in piedi, letteralmente, mentre guerre e conflitti per le risorse naturali necessarie all’economia “green” sono all’ordine del giorno nei rapporti di organizzazioni internazionali e attivisti, meno in quelli dei latifondi mediatici. Afferma Bigger su TurningPoint che per produrre 1 megawatt di energia eolica offshore sono necessari, stando ai dati 2021 dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA12):
8.000 kg di rame
5.500 kg di zinco
790 kg di manganese
525 kg di cromo
240 kg di nichel
Mentre gli Stati Uniti del Trump2 annunciano di volerne uscire, l’IEA stima che per rientrare negli Accordi di Parigi ed evitare di oltrepassare quel limite invalicabile – ma ampiamente valicato – di 1,5°C entro il 2040 sarà necessario:
aumentare la produzione di litio del 4.000%
aumentare la produzione di cobalto del 2.100%
aumentare la produzione, o meglio l’estrazione, delle terre rare – di fatto la base dell’intera tecnologia moderna - del 700%
Su questi dati saranno promosse le guerre e i conflitti del prossimo futuro, tutti montati ad arte sotto la chiave del bluff umanitarista. Il mondo che va facendosi “green” nasconde invece la più grande operazione di greenwashing che si possa ideare – come ben dimostra la sempre più stringente repressione contro i difensori dell’ambiente – e che sembra ormai avviato alla guerra tra Stati Uniti e Cina, con questo schema avrà gli stessi problemi del mondo a combustione fossile, tra disuguaglianze e sfruttamento, guerre, conflitti e vecchio colonialismo con una spruzzatina di verde.
Problemi che potrebbero portare la parte ricca della società su Marte, come annunciato dal ritornato Presidente Trump, ma che lasceranno le “classi pericolose” in un mondo che – dicono analisi e dati – è ormai avviato verso un inquietante ritorno al passato. Un vecchionuovo mondo che ha già lanciato il suo novo mantra, la sua nuova religione capitalista: «il cambiamento climatico è un moltiplicatore di minacce».
Questo articolo fa parte della serie "GreenWarZone", l'approfondimento di Inchiostro Politico sull’impatto del complesso militar-industriale sull’ambiente. Trovi tutti gli articoli dell’approfondimento nella specifica sezione in homepage. I grassetti nelle citazioni sono miei, dove non diversamente specificato.
Note:
Nella definizione di “crimine di guerra”, all’art.8(2)(b)(iv) il testo così recita: lanciare deliberatamente attacchi nella consapevolezza che gli stessi avranno come conseguenza la perdita di vite umane tra la popolazione civile, e lesioni a civili o danni a proprietà civili ovvero danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale che siano manifestatamente eccessivi rispetto all’insieme dei concreti e diretti vantaggi militari previsti
Il dato è ripreso dal Base Structure Report 2018 del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti
Il restante 30% deriva invece dall’attività di gestione delle basi
Strategia di comunicazione o marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo (da dizionario Treccani online)
Franco Berardi Bifo, Lorenza Pignatti (a cura di), “Adbusters. Ironia e distopia dell'attivismo visuale", Milano, Meltemi Press, 2020, p.13. La rivista è voce di critica radicale contro la pubblicità ed il sistema socio-culturale pubblicata dal 1989 dalla organizzazione no-profit anticapitalista Adbusters Media Foundation
Enzo Ciconte, “Classi pericolose. Una storia sociale della povertà dall’età moderna a oggi”, Bari-Roma, Laterza, ed.2022
Organizzazione non governativa britannica che lavora per denunciare e spezzare le connessioni tra lo sfruttamento delle risorse naturali – negli anni ha denunciato i commerci illegali, tra gli altri, dei diamanti o del petrolio – e le guerre, la povertà, la corruzione e le violazioni dei diritti umani a livello mondiale. Il lavoro di GW, negli anni, ha permesso di dare vita a standard come il Kimberley Process, che dal 2003 definisce gli standard sui “diamanti insanguinati”, quei diamanti cioè che vengono estratti attraverso conflitti o in Paesi in guerra
La definizione è ripresa da: Roberto Cuda (a cura di), "Grandi opere e democrazia", Milano, Edizioni Ambiente, 2017
Naomi Klein "The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism", New York, Random House, 2007; in italiano "Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri", Milano, Rizzoli, 2008. Traduzione Ilaria Katerinov
Emiliano Brancaccio, "Democrazia sotto assedio", Milano, Piemme edizioni, 2022
Note anche come “tribunali delle multinazionali”, il meccanismo di arbitrato internazionale ISDS (Investor-State Dispute Settlement) si applica nelle controversie tra uno Stato-sovrano e i suoi investitori stranieri e prevede la creazione di una corte di 3 arbitri – avvocati esperti in arbitrato scelti dalle parti (2) e dall’accordo tra di esse (1) – chiamati a decidere su possibili violazioni sugli accordi tra le parti: nei fatti è un meccanismo extragiudiziale, che non passa cioè attraverso i tribunali, e che ha ad oggi permesso agli investitori privati di assicurare il proprio diritto al profitto anche quando questo porta alla riduzione o alla cancellazione dei diritti democratici, come è accaduto nel 60% dei casi fino ad oggi discussi
Organizzazione internazionale intergovernativa, creata nel 1974 dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico in risposta allo shock petrolifero risultato della guerra dello Yom Kippur (6-25 ottobre 1973) allo scopo di coordinare le politiche energetiche dei Paesi aderenti e assicurare la stabilità degli approvvigionamenti energetici sia nel campo dei combustibili fossili che delle energie rinnovabili