Shock’n’Neutralità, quanti volti ha la guerra in Ucraina? [Achtung Disertoren! Vol.5]
Mentre Biden stuzzica l’orso a colpi di rivoluzioni colorate, la guerra in Ucraina cela il suo secondo obiettivo sotto la truffa dei valori universali. Così Il grande nemico diventa il miglior alleato
«Rimanga sul posto Stop Lei fornisca disegni Stop Io fornirò guerra» (William Randolph Herst, proprietario del New York Journal, al giornalista inviato a seguire la guerra tra Stati Uniti e Spagna, 1898).
Il vero obiettivo della guerra in Ucraina? «Mandare a fanculo l’Europa». Letteralmente. È il passaggio più noto di una telefonata del 2014 tra Victoria Jane Nuland e Geoffrey Pyatt, all’epoca rispettivamente sottosegretaria per gli affari in Europa ed Eurasia – con un successivo ruolo di primo piano nell’amministrazione Biden1 – e ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina: nella telefonata Nuland ricorda come Washington abbia «investito 5 miliardi di dollari per dare all’Ucraina il futuro che merita». Per giustificare un investimento economico così ingente, è chiaro che quel futuro non possa che coincidere con piani ed interessi degli Stati Uniti, no? [Ukraine crisis: Transcription of leaked Nuland-Pyatt call].
In quel «fuck the Eu!» pronunciato da Nuland si nasconde un’ampia parte della vera essenza della guerra che Washington e Mosca combattono sulla pelle della popolazione ucraina e che, è evidente, vede nella crisi economica europea qualcosa di più utile di un semplice danno collaterale.
A qualcuno interessa davvero fermare la guerra in Ucraina?
Abbiamo visto come, intorno alla guerra in Ucraina, aleggino gli interessi del complesso militar-industriale e delle industrie attive negli ambiti dello sfruttamento di risorse naturali e terre rare, ma dal punto di vista storico sappiamo che per anni il conflitto nella regione del Donbass – e dunque il conflitto diretto tra Russia e Ucraina – viene nei fatti ignorato, tanto che Joe Biden aspetta 8 anni di guerra [no, il dato non è un errore come vedremo in seguito, ndr] per invocare l’articolo 5 del Trattato istitutivo della Nato a protezione di Kiev: la clausola di “difesa collettiva” impone ai Paesi membri dell’Alleanza atlantica l’obbligo di intervenire se un Paese membro viene attaccato militarmente.
L’attuale Presidente degli Stati Uniti, che sulla “questione” ucraina ha un ruolo ben più interessante di quanto non sia emerso, definisce l’intervento addirittura un «sacro obbligo»: è una chiara escalation che chiude ogni possibilità di mediazione nonviolenta con Mosca e che si rafforza proprio per la presenza al Cremlino di un uomo poco moderato e poco diplomatico. Antonio Russo e Anna Politkovskaya, tra gli altri, confermano.
Noam Chomsky2, tra le più importanti voci dell’antimilitarismo pacifista al mondo, definisce la presenza di Putin al Cremlino come «il più grande regalo immaginabile» per Washington, che usa la guerra in Ucraina anche per rafforzare il suo rapporto di supremazia sull’Unione Europea, nata esattamente come “costola” degli Stati Uniti. In un dibattito con Bill Fletcher jr, attivista e scienziato politico, trasmesso nel 2022 da Real News Network [.pdf], Chomsky pone in evidenza uno dei punti nodali – e oggi dimenticati – del conflitto:
se gli Usa avessero rispettato le red lines russe, come consigliato da esperti, alti consiglieri, diplomatici, anche Francia e Germania, e avessero lavorato per la neutralità dell’Ucraina la Russia avrebbe invaso? Non lo sappiamo. Per citare uno di quegli esperti, l’ex ambasciatore Usa, Chas Freeman, gli Stati Uniti “hanno scelto di combattere fino all’ultimo ucraino”, ovvero di abbandonare ogni speranza di un accordo. Tutto questo si poteva provare a evitare e si potrebbe ancora. Quando Biden dice che Putin è un criminale di guerra e verrà processato, lo mette al muro: l’unica strada è il suicidio o l’escalation, anche nucleare
Quando abbattemmo il confine Bush- Gorbačëv
L’invasione russa del 24 febbraio 2022 – giorno in cui il mondo atlantico scopre una guerra iniziata molto prima – è uno snodo fondamentale nei rapporti tra gli Stati Uniti e la Russia “post-sovietica” nei quali, però, dalle prime narrazioni atlantiche viene scientemente cancellato un passaggio fondamentale: il patto stipulato nel 1989 George W.H. Bush e Mikhail Gorbačëv, all’epoca presidenti delle due grandi potenze, basato su 3 punti geopolitici:
riunificazione della Germania
ritiro delle forze armate sovietiche dal territorio tedesco
divieto per la Nato di annettere i Paesi oggi confinanti con la Russia e in quel momento in uscita dal Patto di Varsavia, che decade nel 1991
Del “patto Bush-Gorbačëv” non ci sono prove scritte ufficiali. Una conferma arriva però nel 1993 grazie a Boris Eltsin – successore di Gorbačëv al Cremlino (1991-1999) – che in un documento inviato all’omologo statunitense Bill Clinton (1993-2001) espone le proprie preoccupazioni sul fatto che persino i «circoli moderati» del Potere russo potrebbero interpretare il mancato rispetto dell’ultimo punto del patto come il tentativo di isolare la Russia dal resto della comunità internazionale. Il documento è oggi reso di dominio pubblico e liberamente consultabile grazie al National Security Archive3[.pdf, in inglese]
Stuzzicare l’orso e pretendere che non morda
Durante il vertice Nato di Madrid dell’8-9 luglio 1997, però, il democratico Bill Clinton, presidente degli Stati Uniti dal 1993 al 2001, mostra tutto il suo disinteresse verso il punto 3 del patto: mentre assicura che il “confine” russo-atlantico non verrà mai oltrepassato da occidente invita Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca ad entrare nell’Alleanza atlantica, in un dialogo che nasce già nel 1991 e nel 1998 si apre anche ad Estonia, Lettonia e Lituania. Così, mentre Mosca entra nel G7 come Paese “amico” – trasformandolo in G8 – Washington mette in piedi una vera e propria “truffa” che qualsiasi cartina politica conferma in modo inappellabile e che, negli anni successivi, vede l’ingresso nella Nato di
Kosovo, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria nel 1999
Bulgaria Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia (2004)
Albania e Croazia (2009)
Montenegro (2007)
Macedonia del Nord (2020)4
Il problema dell’allargamento della Nato ad est rimane vivido fino ad oggi, messo ai margini dell’agenda politico-mediatica solo quando, in risposta agli attentati dell’11 settembre 2001, Washington e Mosca fanno fronte comune contro il terrorismo cosiddetto islamico: un nuovo patto da cui gli Stati Uniti guadagnano la guerra in Afghanistan e Iraq (2001-2003), mentre la Russia ottiene la possibilità di muoversi a propri piacimento nel conflitto in Cecenia (1999-2009), ignorato dai latifondi mediatici atlantici per non disturbare l’”amico” Vladimir Putin, Presidente – seppur ad interim – dal 31 dicembre 1999 e confermato dalle elezioni presidenziali del 26 marzo 2000.
L’ex funzionario del Kgb è la controparte perfetta per Washington, passata sotto il controllo del Potere “neocon” che porta George W. Bush alla Casa Bianca: il piano di espansione atlantica verso est non si arresta e, anzi, tra nuovi ingressi e partenariati è avviato a fermarsi solo una volta raggiunto il confine geografico della Russia. Nelle altre capitali atlantiche il problema non sembra essere rilevante: il “patto Bush-Gorbačëv”, dicono, è stato concordato con l’Unione Sovietica, non con la Russia.
Ve lo buco ‘sto cuscinetto!
La pericolosità di un confine diretto Nato-Russia è resa esplicita proprio dalla guerra in Ucraina, ma è nota tra gli esperti – come denuncia Chomsky – da molto prima del 2022. Creare una zona cuscinetto bloccando l’avanzata atlantica verso l’Europa dell’est è, prove alla mano, un punto fondamentale nella stabilità degli equilibri internazionali. Gli Stati Uniti non solo ignorano gli allarmi ma, addirittura, rilanciano la sfida all’orso moscovita. Servono a questo scopo progetti, sviluppati tramite la Nato e l’Unione Europea, come
il “Partenariato orientale”, una serie di accordi che Bruxelles firma dal 2009 con Ucraina, Georgia, Armenia, Azerbaijan, Moldavia e Bielorussia con lo scopo di rafforzare la sicurezza interna europea attraverso l’”esportazione” di una maggior sicurezza nei Paesi limitrofi come già si è provato a fare, fallendo, con l’”Unione per il Mediterraneo”
gli “Accordi di libero scambio globale e approfondito” (DCFTA in inglese5), che l’Unione europea stipula con Georgia, Moldavia e Ucraina tra il 2015 ed il 2017, ai quali viene assicurato l’accesso a determinati settori del mercato unico europeo, con le stesse tutele normative dei Paesi già membri, come possibile primo passo per un futuro ingresso nell’Unione
Anche la Nato decide di tenere Kiev “sul confine”, dopo le iniziali dichiarazioni che vorrebbero il Paese membro dell’Alleanza bypassando regole e prassi valide per tutti gli altri: ad oggi, nonostante una collaborazione iniziata nel 1997, l’Ucraina è ancora uno dei 6 Paesi “Enhanced Opportunities Partners”6 e non uno stato membro. Nemmeno la decisione del Presidente Petro Poroshenko, che nel 2019 inserisce l’adesione alla Nato nella Costituzione ucraina sembra portare la necessaria pressione sul Potere atlantico per accelerare il procedimento. Una scelta che si somma alla formazione del governo “straniero” del 2014 e pone quesiti interessanti sulla concreta libertà di scelta dei governi post-bellici: cosa accadrà quando a guidare il Paese saranno forze “non amiche” dell’Alleanza atlantica?
La neutralità di Kiev non s’ha da fare
Programmi come il Partenariato creano nient’altro che uno scambio denaro per riforme, con il quale i Paesi europei investono su quei governi che, in cambio di sostanziosi aiuti economici, adottano politiche che tutelano gli interessi economici e finanziari a discapito di diritti e necessità delle comunità locali. “Dottrina dello shock” la chiama nel 2008 la giornalista, scrittrice e attivista Naomi Klein7.
Uno degli obiettivi principali del Partenariato est è allontanare i Paesi dell’area dalla Russia e, soprattutto, dall’Unione economica euroasiatica voluta da Mosca, cui l’Ucraina si avvicina con la presidenza di Viktor Yanukovich (2010-2014): l’idea dei governi aderenti è allacciare rapporti con governi forti extra-atlantici per non dipendere in modo esclusivo dagli “aiuti” e dagli interessi di Washington: è la stessa preoccupazione che porta i Paesi “dissidenti” a non votare in favore delle sanzioni contro Mosca all’Onu durante l’assemblea generale del 2 marzo 2022. Tanto nel 2010 quanto nel 2022, però, gli Stati Uniti rifiutano qualunque possibilità di vedere l’Ucraina autonoma, perché dal punto di vista di Washington questo progetto non avrebbe alcuna utilità economica, politica o militare.
Shock&Debito
La “Dottrina dello shock” si abbatte sull’Ucraina già nei primi anni ‘90, quando la dissoluzione dell’Unione Sovietica porta il Pil pro capite a diminuire del 68%, come riporta una luna analisi di Romaric Godin per il quotidiano online francese Mediapart. La presidenza di Leonid Kuchma8, che guida il Paese dal 1992 al 2005, lega l’Ucraina al Fondo Monetario Internazionale, ieri come oggi uno dei sacerdoti fondamentali della “Dottrina“. Nel 2020 – con il Pil nazionale ridotto del 40% in 30 anni – l’economia ucraina è migliore solo rispetto a Paesi «devastati dalla guerra endemica» come Repubblica Democratica del Congo o Yemen e peggiore rispetto a Paesi molto più piccoli come Albania e Bosnia-Herzegovina.[in abbonamento: L’economie malade de l’Ukraine; qui la traduzione in italiano].
Ad aiutare l’”occidentalizzazione” – o per meglio dire la “atlantizzazione” – dell’Ucraina ed evitarne la fuga verso Mosca concorrono 2 fattori: il passaggio di poteri da Yanukovich a Petro Poroshenko, Presidente ucraino dal 2014 al 2019 e, soprattutto, la minaccia di cancellare un prestito da 17,5 miliardi di dollari per Kiev. Secondo Jeffrey Sachs, oggi collaboratore del Papa ma negli anni ‘80 tra i massimi esportatori della “Dottrina dello Shock”, non è un caso se gli Stati Uniti oltre a rifiutare qualunque ipotesi di una Ucraina indipendente e neutrale, «non hanno mai mostrato un segno di compromesso» né hanno mai «dichiarato i loro termini per trattare».
Kiev ha bisogno del Fmi tanto quanto il Potere atlantico necessita dell’Ucraina, non solo in funzione anti-russa: sono gli aiuti del Fondo ad evitare oggi a Volodymyr Zelensky di presiedere uno Stato fallito e che già prima della guerra registrava un «deficit di bilancio mensile di 5 miliardi di euro», come indica in un’intervista ad Euronews l’ambasciatore europeo in Ucraina Maati Maasikaks.
Il “piano” Fmi non porta alcun benessere alla popolazione – è strutturato esattamente per questo scopo, d’altronde – tra politiche di ampia privatizzazione delle aziende pubbliche, diminuzione degli investimenti stranieri, che passano dai 71,5 miliardi di dollari del 1990 ai 14,8 del 2000 ed ai 36,1 del 2008 e, soprattutto, tagli alla spesa sociale del 7% dal 2014 al 2020.
Così, tra il 2004 ed il 2014 la popolazione ucraina fa ciò che bisognerebbe fare in ogni parte del mondo contro ruberie di Stato, strette repressive e violazioni di diritti e libertà democratiche: scende in piazza, con gli Stati uniti che osservano dalla finestra pronti ad intervenire per tutelare i propri interessi nel Paese. Senza rendersene conto, i manifestanti danno inizio alla guerra che oggi si combatte nel loro Paese, 8 anni prima dell’inizio effettivo.
Debito&Rivoluzione (colorata)
Quello è il decennio delle “Rivoluzioni colorate” che sconvolgono l’Europa dell’est dalla Serbia (2000) alla Georgia (2003) al Kirghizistan (2005) e, nel 2004, l’Ucraina: rivolte popolari che, scrive Alfredo Macchi in “Rivoluzione S.p.A.”9, trovano l’«appoggio» di Washington «per rovesciare alcuni regimi considerati non democratici o semplicemente non amici».
A Kiev lo scontro si accende sulle elezioni presidenziali del 2004, che contrappongono il leader dell’opposizione – e candidato filo-atlantico – Viktor Yushenko al primo ministro uscente Viktor Yanukovich, sostenuto da Kuchma e Putin. La sconfitta del secondo, fomenta le proteste popolari, chiamate dal movimento “Pora!” per ribaltare un risultato elettorale che viene comunque annullato per brogli al secondo turno del successivo 21 novembre. Trovata la soluzione “giudiziaria”, le elezioni ripetute sono vinte da Yushenko con circa il 52% di voti. Non brogli ma giri di valzer si registrano invece nel 2010 quando Yanukovich, presentatosi su posizioni filo-atlantiche, tornato alla guida del Paese torna ad adottare le vecchie idee filo-russe.
Nel novembre 2013 la popolazione torna in piazza per contestare la mancata firma del Presidente Yanukovich di quell’accordo DCFTA che legherebbe Kiev all’Unione Europea, ma solo una volta portato a termine un carnet di riforme – che Bruxelles chiede a tutti i Paesi firmatari di tali accordi – necessarie a migliorare il grado di democrazia del Paese, che rimane “parzialmente libero” fino alla guerra del 202210. Le proteste del 2013, note come “rivolte di Euromaidan” rappresentano il seme della guerra con Mosca che scoppia, nel disinteresse atlantico, solo un anno dopo. L’interesse di Stati Uniti ed Unione Europea è evidente, ma almeno nella prima fase delle proteste in strada si riversa un variegato mondo che assomma estrema destra e nazionalisti ai leader politici liberali filo-europei e agli oligarchi anti-Yanukovich, scesi in piazza solo per salvare i propri profitti.
Per approfondire: Guerra e anarchici: Prospettive antiautoritarie in Ucraina – testo scritto da vari anarchici ucraini, traduzione CrimethInc, 15 febbraio 2022
Contro Putin o contro l’Ue: che ci fa, davvero, Biden a Kiev?
Per assicurare la copertura “atlantica” alle proteste del 2014 Joe Biden arriva in Ucraina come “emissario speciale” dell’amministrazione Obama, di cui è vicepresidente per assenza di altri candidati al ruolo: senatore dal 1973, la “campagna d’Ucraina” permette un forte rilancio di carriera che nel 2021 lo porta alla presidenza degli Stati Uniti. Ad aiutarne la scalata 2 alleati “atipici”: il figlio Hunter – nominato senza alcuna competenza consigliere della Burisma Holding, società pubblica ucraina che si occupa di gas naturale – e lo stesso Putin, perfetto nemico per un John Wayne mancato come Biden e che dovrà pagare «in sangue e soldi» l’invasione della Crimea, realizzata quello stesso anno. Sembra evidente che la soluzione pacifica della “crisi” Kiev-Mosca non sia minimamente presa in considerazione.[What Joe Biden Actually Did in Ukraine].
Sullo sfondo del nuovo maccartismo che colpisce Europa e Stati Uniti da quel momento, è possibile leggere in controluce un secondo progetto di Washington: colpire l’autonomia dell’Unione Europea, così da tenere Bruxelles subordinata agli interessi economici, politici e militari della Casa Bianca. Posizione che l’amministrazione europea accetta di buon grado e che, nell’ottica statunitense, riporta Putin nel ruolo di “nemico-alleato”. Grazie alla guerra, Washington si assicura:
nuova corsa agli armamenti in Europa, in particolare della Germania, con un ulteriore avvicinamento dei Paesi Nato all’obiettivo di destinare il 2% del Pil nazionale alle spese militari
abbandono del principio di neutralità da parte dei Paesi europei come Svizzera, Finlandia e Svezia, la quale decide di entrare nell’Alleanza atlantica non solo disinteressandosi ma addirittura favorendo – con la consegna di Mahmout Tat – la repressione della “questione curda” da parte della Turchia, dittatura-amica e dunque ignorata da Bruxelles
nuovi accordi commerciali Washington-Europa che, a partire da gas e petrolio, determineranno per il prossimo futuro una ancor minore autonomia dagli Stati Uniti
Quando Obama decide di inviare Biden in Ucraina Susan Rice – all’epoca Consigliere per la sicurezza nazionale e ancor prima Rappresentante statunitense alle Nazioni Unite – suggerisce di evitare lo scontro con Mosca: secondo tutte le proiezioni Washington ne uscirebbe perdente. La scelta ricade invece sulla linea “Nuland-Pyatt“ suggerita dal Dipartimento di Stato, per il quale solo Biden è in grado di portare l’Ucraina dalla parte degli Stati Uniti i quali, appoggiando le proteste, provano a mettere ai margini quella parte di classe dirigente ucraina che ritiene possibile l’apertura di negoziati con Mosca. Sostenere l’ala “guerrafondaia” – nell’amministrazione locale così come negli uffici di Bruxelles – ha per Washington un’ampia utilità tanto contro Putin quanto contro l’autonomia europea.
Domande dai confini dell’universalismo
Sappiamo che la guerra in Ucraina è una invenzione anglo-statunitense, con l’arrivo dell’ex primo ministro britannico Boris Johnson in Turchia per smantellare trattative – i cosiddetti “Accordi di Istanbul” – che avrebbero chiuso il conflitto nel giro di pochissimi giorni. È un dato che i libri di Storia non potranno ignorare, almeno quelli scritti con onestà.
L’inclusione dell’Ucraina nella sfera di influenza degli Stati Uniti significherebbe per la Russia ciò che avrebbe significato per Washington l’inclusione di Cuba nel sistema di alleanze militari sovietico
scrive l’ex ambasciatore ungherese György Varga in Repubblica Ceca (1990-1995) – anche osservatore Osce in due checkpoint sul confine russo-ucraino – in un’ampia analisi per Diario Red nella quale riporta un interessante parallelismo[Como Occidente está rompendo Ucrania (pt.1)]:
Allo stesso modo in cui il controllo russo o cinese del Golfo del Messico da basi [militari, ndr] cubane è un’idea assurda, il controllo statunitense del Mar Nero dalle basi ucraine (e prima russe!) in Crimea, sarebbe scandaloso dal punto di vista della politica di sicurezza russo
Una considerazione che mostra in pieno tutta l’anima relativista di ciò che chiamiamo “universalismo”, quel falso ideologico per il quale esisterebbero diritti e libertà uguali per tutti, almeno finché questi corrispondono in tutto il mondo al sistema di valori atlantico. Solo che quando sono Paesi, governi e popolazioni non-atlantiche a volerli tutelare, dalle capitali della urFortezza partono missili, valigette piene di denaro e accuse di “terrorismo” e “antidemocraticità”.
Questo articolo fa parte della serie “Achtung Disertoren!“, l’approfondimento di Inchiostro Politico su antimilitarismo, guerra e diserzione sullo sfondo della guerra in Ucraina. L’intera serie la trovi nell’apposita sezione in homepage.
Note:
Gli ultimi due incarichi vedono Nuland come Sottosegretario di Stato per gli affari politici (maggio 2021-marzo 2024) e Vicesegretario di Stato ad interim (luglio 2023-febbraio 2024)
Noam Chomsky è un linguista statunitense, noto fuori dal suo campo di lavoro per il forte impegno politico: anarchico, anticapitalista, antimilitarista e tra gli intellettuali di riferimento del mondo altermondialista, è da sempre uno dei più ascoltati critici della politica estera statunitense e del ruolo giocato dall’informazione come megafono del Potere
Fondato nel 1985 all’interno della George Washington University, il National Security Archive è una organizzazione statunitense senza scopo di lucro che, come archivio su vari temi, si pone l’obiettivo di rendere pubblici documenti declassificati della CIA, ottenuti attraverso il Freedom of Information Act, legge emanata nel 1966 durante la guerra in Vietnam per facilitare l’accesso ai documenti del governo degli Stati Uniti a chiunque ne faccia richiesta, fatte salve una serie di limitazioni che vanno dalla sicurezza nazionale a questioni di privacy al livello di autorizzazione di chi ne richiede l’accesso
Questi Paesi si aggiungono ai fondatori dell’Alleanza atlantica (Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti che si uniscono nel 1949); a Grecia e Turchia, che entrano nel 1952; Germania (1955 come Germania Ovest e, dal 1990, come Germania riunificata) e Spagna (1982)
Gli accordi, presi in osservanza dell’articolo 49 del Trattato sull’Unione Europea – che definisce la base giuridica per l’adesione dei Paesi europei all’Unione – vengono formalizzati nel 2014, ma entrano in vigore nel luglio 2016 per Georgia e Modavia e solo nel 2017 per l’Ucraina, dopo un primo accordo provvisorio firmato nel 2016
Gli altri Paesi sono Australia, Finlandia, Georgia, Giordania e Svezia. L’Enhanced Opportunities Partner mira ad approfondire la cooperazione della Nato con Paesi partner che abbiano fornito un “contributo significativo” ad operazioni e missioni militari atlantiche: per l’Ucraina questo significa la partecipazione alle operazioni in Afghanistan e Kosovo, alla Nato Response Force e a varie esercitazioni. Ognuno dei singoli 6 Paesi ha rapporti specifici con l’Alleanza, definiti in base agli specifici interessi dell’organizzazione nel Paese e viceversa
Naomi Klein, The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism, Londra, Penguin Books Ltd, 2005, in italiano: Sock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Milano, Rizzoli, 2007
Leonid Kuchma è stato primo ministro dell’Ucraina dal 1992 al 1993, poi Presidente dal 1994 al gennaio 2005
Alfredo Macchi, Rivoluzioni S.p.A. Chi c’è dietro la primavera araba, Lecco, Alpine Studio editore, 2012, pp.77-81
Indicatori forniti da organizzazioni come Freedom House, Economist e Reporter senza frontiere, usate da politica e giornali atlantici come sistema di valutazione obiettivo