“Min eatnamat" - E innalzeremo muri per difendere l’ambiente (dagli ecoterroristi) [#GreenWarZone/5]
L’urFortezza adotta nuove politiche ambientali, alza muri e criminalizza gli attivisti per saldare il Potere di armi e petrolio. I casi Navajo, Sami e Canada. La risposta è nell’economia sociale?

Entro il 2050 serviranno 3 miliardi di tonnellate di metalli e minerali per la transizione ecologica, sostiene la Banca Mondiale in un rapporto del 20201: questo significa che il futuro guidato dal nuovo capitalismo “verde” sarà una semplice evoluzione del regime autoritario che oggi permea la società del petrolio, sostituita da nuovi conflitti per le terre rare – che è poi il vero motivo della guerra in Ucraina – e materie prime strategiche come il coltan, il cobalto o il litio. Lo schema delle relazioni internazionali dei prossimi decenni, se queste sono le premesse ambientali di governi e istituzioni sovranazionali, non farà altro che riproporre la ricetta della risposta militare ai problemi ambientali.
Appunti per una (s)corretta definizione di “terrorismo”
Molti dei diritti con cui siamo cresciuti sono ora rinegoziati, ristretti, e minacciati. Da una prospettiva storica, aspettarsi che le leggi o che chi comanda garantiscano [tali diritti, ndr] appare privo di fondamento. Comunque, la crescente ipocrisia e fragilità dell’ordine dominante apre a domande su cosa può riempire questo spazio. In ogni sistema politico, i diritti sociali sono una chiave per articolare i valori e l’identità della società e il ruolo degli individui in essa
Si legge in un editoriale del sito TurningPoint. «Quello che vogliamo fare è preservare la democrazia», dichiara Neta Crawford nel suo intervento per All Hail the Planet, mentre per le strade l’equa redistribuzione delle risorse – economiche tanto quanto politiche e culturali – il miglioramento della vita delle fasce più marginali delle comunità-Stato, diritti e libertà che quella «democrazia» dovrebbe rappresentare, vengono represse, negate, manganellate, con una particolare attenzione verso le proteste pro-ambiente, in qualunque forma esse vengano manifestate, e che nella narrazione governativo-mediatica diventa con troppa facilità “eco-terrorismo”.[Social Rights and Civil Wrongs].
Si completa così il totale ribaltamento dei concetti di “colpa” e “crimine”: arresti e processi vengono mossi contro attivisti, popolazioni indigene e difensori dell’ambiente, ma sono di fatto inesistenti per le aziende “climalteranti” e i loro dirigenti. Non è una dimenticanza, una svista: è, al contrario, una scelta di schieramento politico dei governi, precisa e ponderata, necessaria ai gruppi del Potere economico-finanziario per disegnare la società del prossimo futuro. «Non possiamo nel nome della difesa di infrastrutture che davvero ci fanno male, arrestare persone e limitare il loro diritto a protestare», conclude Crawford.
È quanto avviene in Italia, con il Ddl1660 e la repressione dei movimenti e dei singoli attivisti che, lottando per il clima e la salute del pianeta difendono anche la vita degli esseri umani sul pianeta, o nelle Filippine dell’ex Presidente Rodrigo Duterte, dove l’Anti-Terrorism Act del 2020 definisce come “terrorista” chiunque danneggi volontariamente proprietà pubbliche o interferisca con infrastrutture “critiche”. Nel 2023 l’organizzazione Global Witness2 mette in luce un dato inquietante: fuori dall’interesse dei latifondi mediatici, negli ultimi 10 anni si è registrato l’omicidio di un difensore dell’ambiente ogni 2 giorni (177 nel 2022) con un particolare onere in America Latina e nelle Filippine.[Standing firm].
Persone come Berta Cáceres (Honduras), Santiago Maldonado (Wallmapu, territorio Mapuche, tra Argentina e Cile), Miguel Vázquez Martínez (Messico), Celia Umenza Velasco in Colombia – scampata a 3 attentati – o Victoria Tauli-Corpuz (Filippine) sono solo alcune tra le tante persone comuni che, ad un certo punto della loro storia, decidono di lottare contro un Potere più grande – spesso alleanza tra lo Stato, la grande imprenditoria (inter)nazionale e la criminalità mafiosa – invece che girarsi dall’altra parte.
Quando il loro diritto si è scontrato con lo sfruttamento del privilegio occidentale li abbiamo chiamati “terroristi”. Ma la domanda non è procrastinabile: è più “terrorista” chi prova a difendere il diritto di ogni singolo essere umano a non vivere con le maschere antigas o chi avvelena l’ambiente per aumentare i profitti sulla vendita delle maschere antigas?
Per approfondire:
Honduras, condanne confermate per l’omicidio di Berta Caceres – Andrea Cegna, ilManifesto, 27 novembre 2024
Honduras: ecco il piano criminale che assassinò Berta Cáceres – Luca Martinelli, Osservatorio Diritti, 2 novembre 2017
Hallan muerto a Miguel Vázquez, activista en Veracruz – Eirinet Gómez, La Jornada, 14 febbraio 2021
Land or Death: Colombia’s Indigenous Land Wars – Witness, al Jazeera, 30 maggio 2022 [documentario]
Caso studio – Sulla ribellione indigena al petrolio e quella voglia canadese di Trump
Dopo 4 anni di lotte e proteste nonviolente, nel 2020 varie comunità di nativi americani come i Lakota Sioux riescono a bloccare la costruzione del Dakota Access Pipeline (Dapl), oleodotto sotterraneo in grado di trasportare, nel progetto originario, 470.000 barili di petrolio al giorno lungo un tracciato di 1.770 km che collega North Carolina occidentale e Illinois e, da qui, nella più ampia rete di oleodotti federale, per un investimento totale da 3,7 miliardi di dollari, di cui 120 milioni di Intesa Sanpaolo3. Il progetto registra però una altrettanto lunga serie di grossi problemi ambientali tra consumo di suolo, fracking come tecnica di estrazione e contaminazione delle falde acquifere del fiume Missouri, da cui le comunità di nativi di Standing Rock prendono l’acqua potabile necessaria alla propria vita quotidiana.
A sospendere il progetto è James Boasberg, giudice distrettuale degli Stati Uniti, che individua una violazione del National Environmental Policy Act4 (Nepa) e ordina il blocco dei lavori fino alla realizzazione di una nuova analisi di impatto ambientale, con al centro proprio le conseguenze del Dakota Access su terreni e vita quotidiana delle popolazioni native di Standing Rock. La protesta indigena, portata avanti attraverso azioni pacifiche e nonviolente, si dota così anche di una forma legalitaria di lotta, entrando nei tribunali statunitensi per provare a difendere i diritti loro garantiti dalla Legge, ad iniziare proprio da quell’accesso all’acqua potabile – diritto umano dal 2010, attraverso la Risoluzione 64/92 delle Nazioni Unite, almeno in teoria – che diventerà uno dei principali motivi per conflitti e guerre del sempre più prossimo futuro.
È invece l’amministrazione Biden a bloccare, anche in questo caso in via temporanea, l’oleodotto Keystone XL, prodotto dalla TCEnergy – oggi TransCanada – come estensione dell’omonima struttura originaria, che dal 2005 trasporta petrolio dal Canada all’Illinois e non in grado di muovere gli 830.000 parili di petrolio estratto al giorno da sabbie bituminose, uno dei metodi estrattivi più inquinanti al mondo perché aumenta il livello delle emissioni climalteranti. Bloccata dalle amministrazioni Obama e Biden e rimessa in sesto durante il Trump I, la nuova linea “XL” avrebbe aggiunto – aggiungerà in futuro? – 2.000 km di tracciato al progetto originario, con una nuova linea di trasporto dalla provincia di Alberta alle Sand Hills del Nebraska, 60.000 km2 designati però ad area protetta fin dal 1984.
Il contrasto tra gas/oleodotti e popolazioni native sembra essere una costante politica ed economica: solo negli ultimi 20 anni, già solo nell’emicontinente nord-americano sono stati creati decine di movimenti di protesta indigena, aggregatisi intorno al cosiddetto Accordo Rosso (Red Deal, in inglese), lanciato nel 2019 da The Red Nation5 per la difesa dei diritti delle popolazioni indigene, il risanamento delle terre, la sovranità – che noi chiameremmo patriottismo, se il nostro non fosse stato venduto ai grandi centri finanziari proprio dai cosiddetti “patrioti” – l’autodeterminazione e la decolonizzazione economica delle terre native prima che politica.
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e, soprattutto, il ritorno della sua politica antiambientalista, potrebbe riscrivere la conclusione dei rapporti tra comunità indigene e compagnie petrolifere sul Keystone XL e, con una visione più ampia, costituire un precedente politico e di conseguenza giudiziario. È da leggersi nell’amicizia tra il rieletto Presidente degli Stati Uniti e il settore petrolifero l’idiozia di voler acquisire al controllo di Washington il Canada come 51° Stato federato?
Canada nativo, o del “modello israeliano” applicato al petrolio
Lo scontro indigeni-compagnie petrolifere permette anche di misurare l’uso politico delle forze di polizia: il caso di studio è l’opposizione della popolazione Wet’sewet’en al gasdotto gnl GasLink in Canada, proprietà TransCanada, e l’operato della Royal Canadian Mounted Police che, racconta nel 2019 al Guardian Freda Huson (Howilhkat), viene creata alla fine dell’800 per realizzare il trasferimento forzato nelle riserve delle popolazioni native, che dal 2015 l’adozione della legge antiterrorismo Bill C-51 trasforma in “estremisti aborigeni”: la legge infatti elegge a nemico dello Stato chiunque si opponga alla realizzazione di infrastrutture critiche nel Paese o all’integrità del territorio. Un provvedimento antiterrorismo che, di fatto, da alla polizia mandato di usare quanta più violenza possibile.[Canada police prepared to shoot Indigenous activists, documents show].

Mentre la popolazione Wet’suwet’en si muove anche attraverso pratiche di rioccupazione delle terre espropriate e di sovranità collettiva, il governo canadese fin dagli anni ‘70 pratica una sofisticata politica di espulsione delle popolazioni indigene dalle “loro” terre ancestrali, in cui ricorre ad abusi della polizia, espropriazioni o pratiche di sterilizzazione di massa e imposizione di scuole residenziali dove cancellare l’identità dei bambini delle comunità native. Negli ultimi 5 anni, scrive Rita Cantalino su Valori, la «criminalizzazione sistematica del dissenso» ha portato all’arresto di 75 difensori dell’ambiente nella sola popolazione Wet’suwet’en, oltre che di due giornalisti. Tutto in nome dei diritti umani, del progresso e della democrazia, s’intende.
Per approfondire:
Capo nativo della Nazione Wet’suwet’en primo prigioniero di coscienza del Canada – Amnesty International, 31 luglio 2024
Gli indigeni, prime vittime dei cambiamenti climatici – Alessandro Longo, Valori.it, 13 aprile 2023
Navajo-Stati Uniti, come si crea un avvelenamento di Stato
Nel 2024 è la Nazione Navajo dell’Arizona a protestare contro gli Stati Uniti, rei di far transitare uranio sul territorio indigeno in violazione di un accordo del 2012 che rende(rebbe) tali spostamenti illegali. Lo scontro tra la più grande Riserva indiana statunitense e Washington è una storia antica, fatta di sfruttamento e avvelenamento di terre e persone che inizia nel 1944, quando sul territorio della Nazione vengono trovate centinaia di miniere di uranio – 520 secondo il censimento dell’Ente Protezione Ambientale statunitense del 2017 – da cui saranno estratte oltre 4 milioni di tonnellate di uranio fino al 1986, anno in cui le miniere vengono dismesse. Quello stesso anno, inoltre, Washington sceglie proprio la Nazione Navajo come area interna per i propri test nucleari. [The Navajo Suffered From Nuclear Testing. Oppenheimer Doesn’t Tell Our Story]
Per approfondire:
I nativi americani pretendono giustizia per la devastazione subita da uranio e test atomici – Michele Manfrin, L’Indipendente, 2 ottobre 2024
Test nucleari e scorie tossiche nelle riserve indiane. Il film “Oppenheimer” non la racconta giusta – Raffaella Milandri, L’AntiDiplomatico, 18 giugno 2024
I posteri e il nucleare: la nostra etica puzza – Wu Ming 1, WuMingFoundation.com, 4 ottobre 2003
Dei danni dell’estrazione mineraria nessuno avvisa popolazioni locali che non parlano inglese, né le aziende produttrici – che invece conoscono bene gli studi in materia – forniscono loro protezioni adeguate, tanto che ancora oggi i membri della comunità continuano ad ammalarsi e morire per tumori collegati a tale attività. Una condizione sanitaria aggravata da 928 test nucleari svolti tra il 1951 ed il 1992 e dai circa 620 kilotoni di materiale radioattivo che questi generano: un peso di oltre 40 volte maggiore rispetto alla bomba atomica esplosa a Hiroshima del 6 agosto 1945.
Non conoscendone gli effetti tossici, per decenni le popolazioni locali usano il materiale di scarto della lavorazione mineraria per costruire le proprie abitazioni, basandosi sulla totale assenza di informazioni da parte delle aziende estrattive di cui 11 – tra cui General Electric e Chevron – nel 2017 sono costrette dall’Epa a partecipare ai lavori di pulizia delle miniere abbandonate, in quanto considerate direttamente responsabili del loro sfruttamento. Le compensazioni economiche per i test nucleari arrivano invece già nel 1990 attraverso il Radiation Exposure Compensation Act: Ian Zabarte, leader della tribù degli Shoshone occidentali, una delle comunità native locali colpite dagli effetti di tali esperimenti, parla apertamente – e non a torto – della volontà statunitense di dar vita ad un vero e proprio «genocidio».[Us nuke tests ‘no difference to genocide’ of native tribes].
“Min eatnamat”, gli indigeni Sami contro l’ambientalismo verde-petrolio
100.000 abitanti di un territorio diviso dalle linee di confine di Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia; una lotta – ormai pluridecennale – per la difesa della propria identità, che si traduce nella difesa dell’ambiente contro la faccia più autoritaria del capitalismo, nero petrolio o verde greenwashing che sia: si potrebbe raccontare così, in estrema sintesi, la Storia del popolo Sami, gli ultimi indigeni d’Europa in rapporto così simbiotico con il pianeta da basare sull’equilibrio di questa connessione l’intera struttura socio-culturale. Un approccio al prospettivismo amerindio in salsa nordica, a voler trovare una ulteriore sintesi.
La società Sami basa la sua esistenza sull’allevamento delle renne – che il cambiamento climatico sta affamando per la scomparsa del lichene – e sulla pesca al salmone, che i tre governi scandinavi tentano da anni di rendere illegale, anche attraverso la militarizzazione dei controlli sui fiumi. Una decisione, quest’ultima, che non ha niente a che fare con la difesa dell’ambiente e molto, invece, con la salvaguardia degli interessi dell’industria minerario-petrolifera internazionale per mano dell’autorità statuale, cui è permesso non solo creare miniere a cielo aperto, come accade per l’estrazione del rame, ma anche sversare i rifiuti tossici risultanti nei terreni e nelle acque di aree come Repparfjord dove, non a caso, il governo norvegese dal 2019 impedisce la pesca.
E poi c’è la questione Lapland (Lapponia, in italiano) e di quell’energia eolica che da progetto ambientalista si trasforma in incubo autoritario contro le popolazioni locali: costruiti nel 2010 nella penisola di Fosen, i campi eolici di Roan e Storheia che fanno parte del complesso “Fosen Vind” – 151 turbine per 1,8 miliardi di kilowattora di elettricità prodotta all’anno, che portano energia a 100.000 abitazioni – rappresentano il più grande impianto onshore d’Europa ma anche una delle meno note violazioni dei diritti umani del Vecchio Continente: con una sentenza del 2021, la Corte suprema norvegese dà ragione ai Sami sostenendo come l’intero progetto, infrastrutture secondarie incluse, violi tanto l’art.27 del Patto internazionale sui diritti civili e politici6 quanto i diritti ambientali e all’uso del territorio, che i Sami abitano da 9.000 anni.[qui il testo della sentenza, .pdf in inglese].
Le mire sulle terre Sami, soprattutto in chiave disboscamento e riduzione degli spazi di allevamento delle renne, rientrano non solo in una politica di asfissia e cancellazione dell’identità indigena, ma anche nel conflitto internazionale per il futuro controllo delle risorse dell’Artico, dove lo scioglimento dei ghiacci sta aprendo nuove strade e possibilità nelle relazioni internazionali, soprattutto nei rapporti commerciali tra i governi scandinavi e i Paesi asiatici: progetti come la ferrovia tra Rovaniemi (capoluogo delle Lapland, in Finlandia) e il Mar Glaciale Artico dovrebbe permettere, nelle intenzioni di politica e industrie produttive, di abbassare del 25-30% i tempi di trasporto delle merci.
I progetti minerari, racconta l’artista e attivista decoloniale Britta Marakatt-Labba in un documentario trasmesso da al Jazeera, stanno portando allo spostamento dell’intera città svedese di Kiruna, perché nella vicina miniera di ferro è stata trovata una nuova vena di ore (un minerale grezzo composto di vari metalli) ed è necessario allargare lo spazio di ricerca industriale: «quando li vedi muovere i palazzi ti sembra di star sognando. Ti strofini gli occhi ma è tutto vero». Spostare un’intera città significa letteralmente eradicare una comunità per spostarla in un altro posto, con tutto ciò che questo significa. «Ciò avrà un effetto anche sulle prossime generazioni», accusa Marakatt-Labba: a ben guardare è la perfetta sintesi della condizione cui oggi si trova l’intera popolazione Sami.[Stitches for Sapmi: A Sami artist’s fight against climate change].
“Min eatnamat”, questa è la nostra terra, scandiscono i Sami in protesta contro uno Stato che reprime il diritto a difendere la loro terra fin dalle rivolte di Alta del 19817. La lotta tra questa popolazione e gli Stati scandinavi è antica e passa prima da scusanti religiose, poi dal riconoscimento della loro identità – solo negli ultimi anni si inizia, seriamente, a parlare del processo eugenetico di purificazione, rieducazione ed assimilazione, con politiche di sterilizzazione di massa – e infine contro lo sfruttamento e l’espropriazione delle loro terre laddove i governi nazionali, tutti ferventi democrazie dichiarate, hanno da tempo individuato risorse minerarie e petrolio, oltre al luogo ideale per quella riconversione ecologica, nella fattispecie all’energia eolica, che tra le righe parla di autodeterminazione di un intero popolo, violazione dei diritti umani e di attacchi diretti alla democrazia in nome del profitto.
Basti in questo senso considerare, ad esempio, come la legge finlandese impone che i Sami vengano consultati per qualunque decisione che abbia a che fare con il loro territorio, attraverso i rappresentanti del loro Parlamento: il parere non è vincolante, così il governo di Helsinki può continuare ad ignorare le istanze indigene, violando così la Convenzione n.169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sui diritti dei popoli indigeni e tribali del 1989 [.pdf], che i Paesi scandinavi ratificano già negli anni ‘90.
Per approfondire sulla “questione” Sami:
La guerra ostacola la cooperazione scientifica nell’Artico – Sara Ibrahim, Swissinfo.ch, 22 aprile 2022
La storia drammatica dei sami – Maurizio Karra, Rivista etnie, 13 dicembre 2022
Quando le renne responsabilizzano un’azienda – Anand Chandrasekhar, Swissinfo.ch, 30 agosto 2021
Armi, petrolio, migranti: come nasce un sistema di Potere
«Securitizzare la crisi climatica», per dirla con la definizione di Ali Rae, non è affatto un progetto a difesa dell’ambiente o della vita di comunità che abitano territori sempre più fragili, sottoposti a stress derivanti dal cambiamento climatico e, soprattutto, dalla speculazione capitalista. “Mettere in sicurezza” la crisi climatica si traduce, invece, nella creazione di un vero e proprio indotto repressivo-economico legato al business dei muri, delle tecnologie di sorveglianza e della gestione dei flussi migratori. Diversificazione del prodotto si chiama nelle più basiche regole commerciali. È così che nasce un sistema di Potere, che nel caso specifico lega:
complesso militar-industriale, di cui fanno parte le aziende che producono armi tanto quanto strumenti di controllo biometrico, droni e, in generale, tutta quella tecnologia che può essere impiegata per il controllo sociale, sia delle masse che individuale. Nick Buxton, nella sua intervista con Ali Rae, cita l’IBM, oggi attiva nel settore dell’Intelligenza Artificiale e coinvolta nell’industria bellica fin dalla seconda Guerra mondiale
compagnie aeree, che i governi impiegano per la gestione dei voli di rimpatrio
società di sicurezza privata, che lavorano anche per la difesa delle compagnie petrolifere
società di consulenza (advisory and consultancy, in inglese) cui le aziende affidano i rapporti con partiti e governi con l’obiettivo di tutelare i propri profitti istituti di ricerca privati e università, sempre più coinvolte negli studi per il settore militare
Per approfondire:
Tutto ciò che non vi interessa sapere dell’università e la guerra – Umberto Cherubini, gli Stati Generali, 26 aprile 2024
In questo sistema, il Potere di armi e petrolio diventa legislatore occulto e portatore di instabilità, aggiungendo ad affari lucrosi crisi di natura ambientale, sanitaria e sociale oltre che politico-economica. Al vertice, seguendo la ricostruzione dettagliata da Nick Buxton, ci sono le grandi società finanziarie – come Vanguard e BlackRock – che, controllando il debito pubblico nazionale (vedi #GreenWarZone/3) indirizzano le politiche nazionali ed internazionali, incluse le scelte commerciali e ambientali legate alla produzione o alla compravendita di armi. Un indotto così strutturato è un caso studio perfetto per (contro)sorvegliare il grado di trasparenza e i conflitti di interesse dell’indotto armiero-petrolifero, compresa la pratica delle “porte girevoli”8, sempre più potente e sempre più centrale negli equilibri internazionali futuri.
E così ci ritrovammo tutti iscritti al terrorismo
Dal punto di vista dei gruppi di Potere, mappare tutte le rivolte indigene a difesa dell’ambiente – intendendo il termine nel suo senso letterale e non solo antropologico9 – significa raccontare di fatto la biografia di un reato “globale”. In questo ribaltamento della realtà e delle parole usate per descriverla, criminale non è avvelenare in modo consapevole la terra e l’acqua, non lo sono il consumo di suolo, lo sfruttamento di terre e persone né riempire di cemento aree che servono al pianeta – e di conseguenza a tutti gli esseri viventi – per sopravvivere: in questa realtà il crimine viene commesso da chi protesta, da chi difende il proprio territorio e la propria vita da progetti che pongono il profitto come unico risultato possibile. E così nascono i “terrorismi”.
Quando la Somalia si ritrova il mare pieno dei rifiuti tossici europei, quando le acque del Delta del Niger iniziano a subire gli effetti delle estrazioni petrolifere, i pescatori perdono il lavoro, perché rifiuti e petrolio uccidono tutti i pesci. Così, per sopravvivere, quelle stesse comunità che i latifondi mediatici descrivono come bisognose di aiuto sono costrette a trasformarsi in “pirati”, o “terroristi”, mentre le stesse democrazie che ne avvelenano i territori e ne mettono a rischio la vita lavorano nei grandi consessi internazionali per soccorrerle, purché l’aiuto sia concesso attraverso il giogo dei prestiti “umanitari” o dell’occupazione militare, estera o locale che sia.
Innalzeremo muri per difendere l’ambiente!
«È una sfida enorme quando gli interessi politici ed economici sono sistemati da un lato solo», riflette Nick Buxton nel suo dialogo con Ali Rae. L’errore di fondo di questa nuova modernità a mano pesantemente armata è anche la sua principale politica economica: l’idea industrial-securitaria che pone le armi come perno è un concetto classista, con il quale si garantisce “sicurezza” solo al ristretto gruppo di persone che sta al vertice della società. Inventare un nemico – ogni volta diverso: l’immigrato, l’omosessuale, il sostenitore di idee politiche diverse, etc – diventa condizione propedeutica all’intero schema che tali scelte politiche definiscono.
Buxton pone l’accento sull’esistenza di «diverse concezioni del termine sicurezza», nessuna delle quali «neutra», aggiunge Ali Rae guardando allo sviluppo dell’Occidente: «il problema», conclude, «è che le concezioni che dominano sono anche quelle con maggiori risorse»
Ridefinire le relazioni internazionali sotto la chiave dell’Architettura dell’Oppressione è un disegno politico preciso, che viene testato sulle fasce marginali della società – in primis migranti e sex workers – per scandagliare la capacità di rottura di una comunità, collaudando nuove politiche e tecniche di repressione dei diritti e delle libertà che poi saranno applicate al resto della popolazione, come accadrà in Italia con la trasformazione in legge del Ddl 166010, che normalizza pratiche come fogli di via, sorveglianza speciale e zone rosse [ne parleremo in modo più approfondito in uno specifico articolo, ndr]. È una forma di eugenetica dei comportamenti che negli ultimi anni sta saldando la questione migrante con le tematiche ambientali.
I confini saranno i più grandi alleati dell’ambiente. È attraverso loro che salveremo il pianeta
così dichiarava nel 2019 Jordan Bardella, ex presidente del partito di estrema destra francese Rassemblement National ed ex “prodigio” della politica europea poi bruciato, di fatto alla prima occasione utile, dalle elezioni nazionali tenutesi tra il 30 giugno e il 7 luglio 2024. Sappiamo che, ad oggi, le migrazioni causa clima rimangono per lo più all’interno dei confini, solo una minima parte diventa “transfrontaliera”: risolvere clima e migrazioni con lo strumento militare è una falsa soluzione, che infatti non sta risolvendo nessuno dei due “problemi” ma sta permettendo – anche alla luce del #ReArm Europe – di porre il complesso militar-industriale al centro degli equilibri interni al Potere atlantico e, per conseguenza diretta, delle relazioni internazionali future.
C’è anche la supposizione che [i migranti, ndr] muoiano per venire in America o per andare in Unione Europea. No, sono forzati per cause economiche, cause politiche e a volte ambientali. Ma le ambientali sono una sorta di intreccio con le sociali e le politiche
avverte Marwa Daoudy ponendo l’accento su una questione che la narrazione delle migrazioni spesso dimentica: tranne rarissime eccezioni – che non avvengono per nessuno dei tre problemi appena citati – «non ci sono migranti che vogliono andarsene volentieri» perché, come ricorda il vecchio adagio
nessuno mette i figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra
Sputiamo sui “totem” che assediano la Democrazia popolare e insurgente
Ciò che la Commissione von der Leyen impone attraverso il “ReArm Europe”, non solo all’interno dell’Unione-Fortezza, è semplice: cancellare qualunque investimento non destinato alle armi. Niente denaro per l’istruzione (“di Stato”) delle giovani generazioni o per la cura delle fasce più anziane della popolazione; niente per un territorio che l’ingordigia imprenditorial-speculativa rende sempre più ostile; niente contro le crisi sociali legate ad un mondo del lavoro sempre più precarizzato; niente per l’accoglienza dei migranti, che anzi in questo schema diventano allo stesso tempo arma politica, laboratorio di repressione e capro espiatorio perfetto. Quello annunciato dalla Commissione europea è, nei fatti, un processo di vera e propria demolizione della Democrazia europea, di cui il progetto-riarmo è l’«assedio» finale, per dirla con l’economista Emiliano Brancaccio11.
Appare conseguenza più che logica la perdita di fiducia popolare nei “totem” del vecchio sistema-mondo che si sta registrando in questi ultimi anni, dalle grandi istituzioni sovranazionali – che dimostrano la loro completa inettitudine nell’affrontare la nuova “muscolarità” dei governi nazionali, i quali vengono sfiduciati “dal basso” perché incapaci di rispondere alle esigenze sociali ed economiche del popolo senza passare dal manganello. Infine crolla – ben prima del biennio 2022-2024 – la fiducia nei “grandi” organi di informazione, che adottano in maniera sempre più esplicita (e ridicola in un mondo a connessione perenne) il megafono della propaganda per assecondare sponsor commerciali e governi, trasformandosi in nient’altro che Ladri di domande.
In questo “sputare” sui totem viene esacerbata la frattura12 tra classe politico-economica e popolo, tra classi “di Potere” e classi “pericolose”, per usare la definizione dello storico Enzo Ciconte13: da un lato cittadini auto-organizzati e auto-rappresentanti di se stessi, che portano avanti un’idea di futuro precisa, ben delineata e spesso nonviolenta: si può discutere sul metodo, finanche sull’utilità delle pratiche, ma è indubbio che difficilmente qualcuno esca ferito o morto dalle azioni di questi gruppi; dall’altro aziende e governi, partiti che traggono profitto da azioni violente, omicide e climalteranti come il consumo di suolo, la cementificazione, la produzione di armi dall’alto impatto ambientale o l’omicidio dei difensori dell’ambiente e che raramente finiscono sotto indagine o in tribunale.
Come la militarizzazione dell’Unione Europea non è una decisione presa come effetto dell’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, neanche accusare gli attivisti per l’ambiente di terrorismo è un’idea per tempi moderni, anzi: nel 2004 un ufficiale dell’Fbi definisce l’”ecoterrorismo” come la priorità investigativa statunitense, mentre le prime denunce risalgono addirittura agli anni ‘90. «Ora il termine sta cominciando a essere nuovamente popolare», scrivono Justine Calma e Paola Rosa-Aquino su Grist. [The therm ‘eco-terrorist’ is back and it’s killing climate activists].:
[…]le conseguenze del trattare gli ambientalisti come terroristi potrebbero andare ben al di là di negare loro l’ingresso a una conferenza sul clima
Tra economicismo ed ecologia (sociale): quale strada per il mondo nuovo?
Oggi parliamo di antropocene, ma dovremmo chiederci se sono davvero gli uomini e le donne di questa Terra, presi nel loro insieme, a essere responsabili della crisi ecologica iniziata con la rivoluzione industriale
scrive l’archeologa Isabelle Attard, ex parlamentare francese (Verdi, 2012-2017) nel libro “Perché sono diventata anarchica”14. Abbiamo lasciato creare una società che non evacua le popolazioni di città costruite su territori vulcanici – come i Campi Flegrei, 600.000 persone – ma sposta senza problemi un’intera comunità, quella di Kiruna, per non diminuire i profitti dell’industria mineraria. In entrambi i casi la Terra risponde alla stessa maniera: creando crepe nelle case. Non solo in senso architettonico.
La risposta è no: «gli uomini e le donne di questa Terra, presi nel loro insieme», non sono responsabili, in egual misura, della crisi ecologica. Nessuno è esente da colpe, o forse solo le comunità incontaminate: ma proprio per questo i meno colpevoli – cioè le popolazioni che non hanno alcun potere decisionale – dovrebbero rompere il contratto economicista15 da cui si sviluppano capitalismo e produttivismo per adottare un nuovo contratto sociale16, creare così un sistema-mondo che sostituisca la società dello Sfruttamento che, oggi, sta letteralmente implodendoci sotto i piedi. Basta alzare un attimo gli occhi dal proprio ombelico per rendersene conto.
Dobbiamo «rivedere radicalmente le nozioni di cultura, progresso e civiltà», continua Attard17. ed è qui che entra in gioco quella che, a parer mio – e anche dell’ex parlamentare francese – appare come la migliore delle risposte possibili: si chiama “ecologia sociale”, una teoria complessa che fonde ecologia e anarchia, sviluppata dagli anni ‘50 del ‘900 da Murray Bookchin, uno dei più importanti teorici contemporanei del pensiero anarchico. Ne parleremo in modo più approfondito in futuro, ciò che qui ci interessa è il nocciolo anarchista di una teoria che, riprendendo dalle culture indigene, pone l’individuo all’interno – e non “al di sopra” – della natura, privandolo così della sua capacità/volontà di sfruttare le risorse di Madre Terra, e di delineare una struttura sociale basata su rapporti sociali gerarchici e autoritari.
È quella di Bookchin – che riprende pratiche e teorie anche dalla Comune di Parigi e dalla Confederación Nacional del Trabajo (CNT), che agli inizi del ‘900 raduna i sindacati anarchici spagnoli – una forma di democrazia sussidiaria, che non passa più dal voto ma dalla partecipazione, attiva e diretta, di tutti i membri della comunità.
se il livello locale può risolvere i suoi problemi, non c’è bisogno di sollecitare il livello superiore, distrettuale o cantonale. Sono dunque le persone direttamente coinvolte a prendere le decisioni
Tu lo sai dove nasce la Democrazia?
Non bisogna dimenticare che la Democrazia vera, quella che si cura realmente del benessere del popolo e il rispetto della sua volontà, non è mai arrivata dall’alto, dai governi, dai tribunali o dai grandi consessi internazionali. La vera Democrazia, quella che non ha bisogno di aggettivi, è sempre nata dalle strade in protesta, dalle montagne partigiane, da tutti quei luoghi dove nella Storia si sono formate le proteste sociali che non a caso, ieri come oggi, affrontano il volto più muscolare dello Stato-nazione, che fuori dall’accademia è archetipo dell’organizzazione sociale dell’anti-democrazia.
In questo senso, concetti come “Legge” e “tribunale” non nascono per livellare verso l’equilibrio i rapporti, oggi gerarchici, tra le diverse componenti dell’organizzazione statuale bensì per la necessità opposta: frenare l’espansione dei diritti – compreso il diritto alla libertà – delle persone, soprattutto di coloro che compongono le classi “pericolose”.
Basti considerare la differenza che intercorre tra i processi contro i cosiddetti “colletti bianchi” e i processi per povertà, nei quali i diritti di base della Democrazia - «un tetto per ogni famiglia, del pane per ogni bocca, educazione per ogni cuore, luce per ogni intelligenza», per usare la formula dell’anarchico Bartolomeo Vanzetti18 – vengono discussi come colpa del singolo e non come suo adattamento a politiche economiche su cui non ha per lo più alcun potere decisionale, neanche in termini puramente elettorali. In tribunale, per la Legge che questi sono chiamati a gestire ed applicare
• è criminale chi occupa una casa, non chi la lascia inabitata per alzare il profitto speculativo
• è criminale chi «ruba il pane», citando Fabrizio de André – non chi scommette sui mercati finanziari per rendere il prezzo del cibo sempre meno accessibile
• è criminale il lavoratore che denuncia un ambiente di lavoro tossico dal punto di vista chimico-ambientale, non l’azienda che per aumentare i dividendi taglia le spese sui sistemi di sicurezza
È criminale infine, ma la lista potrebbe essere ben più lunga, chi scende in strada a protestare per le politiche di governi che impoveriscono le “loro” popolazioni, non i ministri che introducono tali politiche nei singoli Paesi, rispondendo agli obiettivi, alle austerità e agli shock necessari della finanza speculativa e ignorando la volontà del popolo-(e)lettore. Ed è in questa frattura che germinano i semi dei regimi autoritari da un lato e dei Luigi Mangione dall’altro [+1].
Questo articolo fa parte della serie "GreenWarZone”, l'approfondimento di Inchiostro Politico sull’impatto del complesso militar-industriale sull’ambiente. Trovi tutti gli articoli dell’approfondimento nella specifica sezione in homepage. I grassetti nelle citazioni sono miei, dove non diversamente specificato.
Note:
Banca Mondiale “Minerals for Climate Action: The Mineral Intensity of the Clean Energy Transition”, 2020 [.pdf]
Organizzazione non governativa britannica che lavora per denunciare e spezzare le connessioni tra lo sfruttamento delle risorse naturali – negli anni ha denunciato i commerci illegali, tra gli altri, dei diamanti o del petrolio – e le guerre, la povertà, la corruzione e le violazioni dei diritti umani a livello mondiale. Il lavoro di Global Witness, negli anni, ha permesso di dare vita a standard come il Kimberley Process, che dal 2003 definisce gli standard sui “diamanti insanguinati”, quei diamanti cioè che vengono estratti attraverso conflitti o in Paesi in guerra
La cifra è ripresa dai comunicati stampa della banca, ma secondo le analisi realizzate da Food and Water Watch – organizzazione non-governativa statunitense che si occupa di monitorare la qualità di cibo e acqua - l’investimento totale del primo istituto bancario italiano sarebbe di 339 milioni di dollari
Nota anche con il suo acronimo Nepa, è la legge che dal 1970 regola l’impatto ambientale nella costruzione delle grandi infrastrutture degli Stati Uniti, obbligando ogni progetto ad una valutazione di impatto ambientale propedeutica alla realizzazione. È nota anche per essere la prima legge in tema ambientale nell’ordinamento giuridico statunitense. Già entrata nel mirino di Donald Trump durante il suo primo mandato, il rieletto presidente proverà anche questa volta a cambiarne le regole di applicazione, rendendola inoffensiva?
Nata nel 2018, la Red Nation è un gruppo di advocacy (“auto-rappresentanza” è la traduzione migliore, nel caso specifico) dei nativi indigeni americani focalizzato sui processi di decolonizzazione marxista come strumento di liberazione dell’identità indigena oltre che nell’abbattimento dei confini. Dal 2021, in risposta e sostegno al Green New Deal – il piano di riforme socio-economiche per il contrasto al cambiamento climatico promosso dagli Stati Uniti nel 2022 – propone il “Red Deal”, un manifesto nel quale la gestione della terra secondo la cultura indigena viene posta al centro della soluzione della crisi climatica. Per approfondire: Nich Estes, “The Red Deal: Indigenous Action to Save Our Earth”, New York/Philadelphia, Common Notions Press, 2021
Dal testo: “In quegli Stati, nei quali esistono minoranze etniche, religiose, o linguistiche, gli individui appartenenti a tali minoranze non possono essere privati del diritto di avere una vita culturale propria, di professare e praticare la propria religione, o di usare la propria lingua, in comune con gli altri membri del proprio gruppo”
Le proteste nascono nel 1978, nel tentativo di bloccare la costruzione di una centrale idroelettrica e il propedeutico dragaggio del fiume Alta-Kautokeino in Norvegia, cui il governo pensa come soluzione locale alla crisi petrolifera globale del 1973. Guidate da un collettivo di giovani artisti visivi Sami, le proteste daranno vita ad un ampio movimento ambientalista che unirà alla difesa del territorio – della vita del fiume secondo la popolazione locale – la tutela dei diritti di sovranità delle popolazioni indigene, in una lotta che passerà in breve tempo dal locale alla creazione di un movimento internazionale. Per approfondire: Nicola Renzi, “«Uno yoik è più potente della polvere da sparo». Riflessioni sul caso Alta-Kautokeino in memoria di Mattis Hætta (1959-2022)”, in: “Etnografie sonore”, vol.1/2022, Università degli Studi di Bologna [.pdf]
Nella definizione che ne dà l’ong Transparency International dal 2010, con la definizione di “porte girevoli” (o, più comunemente “revolving doors”, mutuando il termine dall’inglese) il passaggio sospetto di funzionari del settore pubblico o dei dirigenti di aziende private al settore pubblico per sfruttare, dalla nuova posizione lavorativa, l’influenza che questi hanno guadagnato nel precedente lavoro. Agricoltura, difesa, energia, finanza e salute sono, ad oggi, i campi in cui più si registra questo fenomeno
Cioè nel senso generale di “originario del luogo” (Zingarelli, 2017) e non come “discendenti di coloro che abitavano un certo luogo prima di altri, che poi ne sono diventati la società prevalente e dominante” (definizione dalla terminologia di Survival International)
Mentre scrivo il governo Meloni arroga a sé l’introduzione di questo ennesimo “pacchetto sicurezza” – tra i più repressivi e antidemocratici che la Storia repubblicana ricordi – convertendolo da disegno di legge (Ddl) in decreto legge (Dl), rendendolo così immediatamente esecutivo e obbligando il Parlamento a convertirlo in legge senza poterne realmente discutere, nonostante vari profili di incostituzionalità del testo
Emiliano Brancaccio, "Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico. 50 brevi lezioni", Milano, Piemme Edizioni, 2022
Nel 1967 Seymour Martin Lipset, sociologo statunitense e Stein Rokkan, politologo norvegese, elaborano una teoria sulla formazione dei partiti basata su 4 "cleavages" o, in italiano, "fratture sociali": frattura centro-periferia nella quale nascono le spinte autonomiste contro lo Stato centrale; Stato-chiesa, nella quale si forma lo scontro tra partiti laici e di ispirazione religiosa; città-campagna, con la nascita di partiti in rappresentanza della borghesia industriale e delle forze agrarie; capitale-lavoro, ovvero lo scontro tra i partiti "capitalisti" e i partiti di ispirazione socialista
Enzo Ciconte, “Classi pericolose. Una storia sociale della povertà dall’età moderna a oggi”, Bari-Roma, Laterza, ed.2022
Isabelle Attard, “Comment je suis devenue anarchiste”, Parigi, Éditions du Seuil, 2019; in italiano: “Perché sono diventata anarchica”, Milano, elèuthera editrice, 2021, traduzione di Vincenzo Papa, p.35
Complesso delle dottrine che assegnano all’economia un posto preponderante nell’insieme delle attività umane (fonte: loZingarelli 2017)
Nella definizione concepita dal filosofo, pedagogista e musicista Jean-Jacques Rousseau nel 1762, è un patto tra liberi individui che, abbandonando lo “stato di natura” – il mondo prepolitico in cui gli uomini non sono ancora associati tra loro e, dunque, non sono soggetti al controllo del governo – concedono i loro diritti individuali alla comunità che essi stessi formano, dando vita di fatto allo Stato
Attard, op.cit., p.71
Bartolomeo Vanzetti (1888-1927), insieme a Nicola Sacco (1891-1927) è stato un lavoratore anarchico italiano, emigrati negli Stati Uniti agli inizi del ‘900 in cerca di lavoro. Vengono condannati a morte nel 1921, con l’accusa di aver rapinato e ucciso un cassiere e una guardia del calzaturificio Slater&Morrill di South Braintree, contea di Norfolk, Massachusetts: non ci sono prove dell’atto criminale che, anzi, in ben 3 processi vengono smontate addirittura dal vero colpevole, Celestino Madeiros, reo-confesso. La loro unica colpa, quella che li porterà alla sedia elettrica il 23 agosto 1927, è essere anarchici e, soprattutto, italiani. La loro riabilitazione pubblica avverrà, con tanto di scuse, solo nel 1977.
Complimenti, un saggio approfondito, non concordo su tutto, ma trovo veramente, veramente interessante l'approccio. Mi riprometto di approfondire.