Clima a mano armata [#GreenWarZone/3]
Il clima diventa sempre più un’arma militare, declinata nel business della repressione di attivisti e migranti. I casi Italia e Siria tra ponti, terrorismo e semantica. Fa più danni il clima o l’Fmi?
Scienziati, politici ed attivisti di varia estrazione concordano nel definire le crisi climatiche e i problemi dell’ambiente in un «moltiplicatore di minacce», per riprendere la definizione usata da Ali Rae nella sua trasmissione All Hail the Planet per al Jazeera dedicata alle emissioni militari climalteranti e all’impatto antiambientale della Guerra e del complesso militar-industriale. Il paradigma è corretto, dimostrarlo è un gioco ridondante. Ad essere pericoloso è il progetto politico-economico che i gruppi di Potere definiscono per risolverlo: un progetto che cela decisioni politiche, sposta fondi pubblici, definisce piani urbanistici e tesse conflitti che servono solo a reiterare lo sfruttamento, le diseguaglianze e l’oppressione delle “classi pericolose”1.
Climate driven-threats: allineare la guerra ai migranti alla distruzione del pianeta
“Climate driven-threats” o “minacce guidate dal clima”, in italiano: l’autoritarismo che usa la carta delle crisi ambientali per reprimere il dissenso e restringere diritti democratici come la libertà di movimento e di espressione nasce almeno agli inizi degli anni 2000 quando il Pentagono suggerisce alla Casa Bianca di rafforzare i confini nazionali contro i “migranti climatici” provenienti da Caraibi, Messico e America Latina. L’idea di costruire un muro, una barriera per bloccare l’ingresso nel Paese dalla frontera sur nasce però quasi un decennio prima, sotto l’amministrazione repubblicana di George W. H. Bush (1989-1993). Da quel momento nessuno dei governi che si sono succeduti fino a questo momento, hanno davvero bloccato il progetto, anzi:
l’amministrazione democratica di Bill Clinton (1993-2001) ne rafforza le fondamenta, costruendo parte del muro in Arizona, Texas e California e redigendo nel 1996 l’Illegal Immigration Reform and Immigrant Responsibility Act (Iiraiira)
George W. Bush jr (repubblicano, 2001-2009) allarga il progetto del confine invalicabile con il Messico attraverso il Secure Fence Act del 2006. Alla fine del suo mandato il Muro chiude già 930 dei 3.141 km totali di confine tra Stati Uniti e Messico
il democratico Barack Obama (2009-2017), misteriosamente premio Nobel per la Pace proprio nell’anno del suo insediamento non solo non blocca il progetto, ma dota il Muro di strumenti tecnologici come sensori e una rete radio per migliorare il coordinamento degli agenti inviati per impedire il passaggio delle persone e, solo in seconda o terza istanza, armi e droga
a rallentare lo sviluppo del Muro è invece proprio Donald Trump (repubblicano, 2017-2021), che arriva alla Casa Bianca con 1.041 km di muro già costruiti e ne aggiunge “solo” 79 km
l’amministrazione Biden (democratico, 2021-2025) definisce il progetto «non efficace» pur continuando a finanziarlo con convinzione, espropriare i terreni per costruirne le parti mancanti – migliorando al contempo l’impianto tecnologico e militarizzandolo ulteriormente con il dispiegamento di 3.000 agenti della Guardia Nazionale
Migrazioni causa clima: come si risolve un problema “fantasma”?
In questo ampio arco di tempo, clima e ambiente subiscono un processo di traslazione semantica, passando dal campo narrativo degli affari di natura socio-economica a quello delle questioni da risolvere manu militari. Come effetto diretto le politiche destinate alla soluzione delle crisi climatiche vengono sempre più definanziate, mentre aumenta la spesa militare globale: tra il 2013 ed il 2018 Canada, Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Giappone e Australia – che in solido sono responsabili del 48% delle emissioni globali di gas serra – investono 14,4 miliardi di dollari alla soluzione “politico-civile” dei problemi dell’ambiente, soprattutto alla voce “finanza climatica” e 33,1 miliardi per il rafforzamento dei confini ed il controllo dei flussi migratori [Global climate wall. How the world’s weathiest nations prioritise borders over climate action, .pdf]
Nel 2019, riporta Ali Rae, il governo australiano decide di dislocare le forze di difesa nelle sue acque territoriali, innalzando il livello di sicurezza con l’obiettivo di intercettare e bloccare i migranti “climatici”, creando di fatto un’area “SaR” (“Search and Rescue”2) sul modello creato dalla urFortezza europea nelle acque territoriali libiche, creata ufficialmente per controllare i flussi migratori nel mar Mediterraneo grazie al finanziamento della “Guardia costiera libica”, nome vendibile (d)ai giornali dietro al quale il governo europeo nasconde e tutela nient’altro che un cartello di trafficanti di esseri umani, che possono viaggiare con voli di Stato (Osama Njeem Almasri) e parlare seduti ai tavoli dei ministeri italiani più importanti (Abdul Rhaman Milad, detto “Bija”). Solo un caso che entrambi gli episodi siano legati a governi del nostro Paese?
Per approfondire:
Libia, crimini contro l’umanità coi soldi degli italiani. Lo dice un’indagine Onu: “Guardia costiera collusa e pagata dai trafficanti” – Franz Baraggino, il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2023
Così la nostra politica in Libia ha arricchito ancora di più i trafficanti di esseri umani – Francesca Mannocchi, l’Espresso, 27 luglio 2020
Libia-Italia. Inchiesta su Bija e Osama, ufficiali libici, per traffico di esseri umani – Nello Scavo, Avvenire, 18 febbraio 2024
Cosa può succedere se la Libia coordinerà per davvero i salvataggi in mare – Lorenzo Bagnoli, Fabio Papetti, IrpiMedia, 21 ottobre 2024
Formalmente, ad oggi, i migranti causa crisi climatica non esistono. Ciò che rimane del diritto internazionale non riconosce infatti questa causa per attivare lo status di rifugiato e, di conseguenza, tutte le tutele che tale condizione giuridica comporta. Ciò si deve anche ad un dato specifico: ad oggi la maggior parte dei migranti climatici si sposta tra aree diverse del Paese da cui scappa (8,7 milioni di persone nel 20222, secondo l’Internal Displaced Monitoring Group3, Idmc), un dato che permette di rinchiudere una questione evidentemente sociale, politico ed economico nell’agenda dei problemi di politica interna, lasciandone la gestione ai singoli governi nazionali.
Dati e proiezioni per il futuro raccontano una storia diversa: l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) indica in 20 milioni di persone i migranti costretti ogni anno ad abbandonare la propria quotidianità per problemi legati al clima, mentre l’ultimo rapporto pubblicato proprio dall’Idmc fissa in quasi 61 milioni di persone i migranti climatici nel solo anno 2022, con un aumento del 60% rispetto al 2021. In termini di paragone l’Idmc definisce, per lo stesso periodo, in 28,3 milioni di persone costrette a spostarsi per conflitti e violenze.
Altri dati, resi pubblici dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico4, prevedono che nei prossimi 30 anni saranno addirittura 143 i milioni di persone costrette a spostarsi per eventi climatici più o meno estremi[.pdf]; secondo altre proiezioni, tra cui quelle dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Iom), entro il 2050 la migrazione forzata per effetto del cambiamento climatico potrebbe colpire tra i 31 milioni e il miliardo di persone.[Disaster risk reduction and climate change adaptation in IOM’s response to environmental migration, p.65, .pdf]
Al di là della correttezza numerica delle previsioni, è chiaro come i fenomeni migratori non possano essere fermati innalzando muri e, semplicemente, impedendo alle persone di scappare dai propri Paesi in cerca di condizioni di vita migliori. Nonostante questo quadro incontrovertibile dal punto di vista storico e politico, i governi e i gruppi economici che ne sono i controllori sembrano voler adottare la medesima soluzione che Massimo Troisi individuava anni fa per risolvere il problema dei disoccupati a Napoli: portare i governi a fare investimenti «con camion più grossi» [video].
Clima&migranti: i due volti di una crisi “autoavverante”
L’attuale narrazione del rapporto tra cambiamento climatico e spostamenti migratori descrive un problema “autoavverante”, come raccontano Nick Buxton e Marwa Daoudy nella loro intervista con Ali Rae: 1) le crisi legate al clima hanno un impatto diretto sulle popolazioni dei Paesi poveri o in via di sviluppo, ma inficiano sempre più anche la vita delle popolazioni dei Paesi più ricchi; 2) ciò costringe le persone a dover migrare dalle loro città e dai loro Paesi; 2bis) in quest’ultimo caso, il grado di indebitamento con le economie ricche non aiuta i governi a fronteggiare gli eventi climatici estremi e le crisi sociali, ambientali ed economiche che questi portano; 3) crisi che i Paesi “riceventi” potrebbero gestire con relativa facilità dedicandovi politiche e risorse adeguate, ma il progetto politico dei governi e dei gruppi economici che li controllano va in un’altra, pericolosa, direzione.
Le alluvioni che ciclicamente investono l’Italia, i danni della “Dana” a Valencia o il gigantesco incendio che ha colpito Los Angeles nelle scorse settimane [+1; +2] mostrano una tendenza anticlassista che le crisi climatiche e il cambiamento climatico stanno assumendo, qualcosa che avevamo già visto in parte con la sindemia di Sars-CoV-2. Ad essere classista, fortemente classista, è invece la risposta politica con cui i gruppi di Potere del Primo mondo rispondono a tali crisi ed emergenze. Un progetto che mostra in modo sempre più nitido come chiunque, un giorno, potrebbe diventare – diventerà? – un migrante climatico.
Migrante o rifugiato climatico? Lo decide la semantica
Nel solo 2023 ci sono stati oltre 20 milioni di rifugiati “climatici”, costretti cioè a spostarsi dai luoghi della propria quotidianità per eventi legati al clima. Di questi, oltre 20 milioni sono di fatto invisibili La migrazione è reale sui territori ma non per “la Legge”: la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, infatti, non contempla la variabile “clima” tra i motivi che permettono di attivare lo status di rifugiato, che invece si applica – o almeno dovrebbe applicarsi, nell’epoca dei confini militarizzati e dei centri di espulsione – a chiunque valichi una frontiera «a causa del fondato timore d’essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per un’opinione politica». Un vulnus giuridico che definisce politiche sociali ed economiche e aiuta a securitizzare la narrazione dei flussi migratori e della sicurezza interna.
Caso studio/1 – Ponti, repressione e...fondi d’investimento: l’Italia come laboratorio di antiambientalismo.
In Italia, riportano i dati dell’Idmc – ripresi da notizie pubblicate sui giornali e dati ufficiali presentati dalla Protezione Civile – tra il 2008 e il 2023 ci sono stati 128 eventi “disastrosi” dal punto di vista climatico e ambientale, con 189.000 persone costrette a migrare all’interno del Paese. Entrando nel dettaglio:
9 terremoti che hanno causato lo spostamento di 118.000 persone
4 frane, con 81 persone costrette a migrare
2 disastri da attività vulcanica, 290 le persone costrette a spostarsi
29 incendi boschivi, con 10.000 persone costrette a migrare
39 alluvioni, con 18.000 persone costrette a migrare
28 frane influenzate dall’azione dell’acqua, che hanno costretto alla migrazione interna 1.300 persone
17 tempeste, che hanno costretto alla migrazione interna 41.000 persone
In Italia, dicono i dati Cnr-Irpi5, nel periodo 1972-2021 sono state 306.000 le persone costrette ad abbandonare o rinunciare alle proprie abitazioni per effetto di frane, inondazioni o altri eventi climatici che, nel solo 2023, hanno cambiato la vita di 41.687 persone (1.694 per frane; 39.993 per inondazioni): nel periodo 2018-2022 lo stesso problema aveva colpito “appena” 18.777 persone [.pdf]. Un dato, allarmante, che dovrebbe mettere la tutela del territorio al primo punto nell’agenda di qualunque governo esista nel Paese, riunioni di condominio comprese. Ma le priorità del Paese, e di chi lo guida dentro e fuori i confini nazionali, sono altre, come dimostrano i tagli alla spesa sociale e il sempre più ingente finanziamento della spesa militare.
L’Italia è un caso studio perfetto, perché agli effetti di crisi ambientali globali legate al cambiamento climatico cui tutto il pianeta è sottoposto – come l’approvvigionamento dell’acqua o la desertificazione – aggiunge un carnet di scelte politiche ed economico-industriali che per decenni si sono disinteressate della tutela del territorio, adottando invece una visione “antiambientalista” di cui stiamo pagando in modo sempre più evidente il conto: il consumo di suolo e la cementificazione sono una parte di una scelta generale che ingloba le armi chimiche testate nei poligoni militari in Sardegna, la gestione dei rifiuti tossici o “scandali” e disastri industriali come quello di Seveso, del “triangolo della morte” Augusta-Melilli-Priolo, del Muos e della Tav. Progetti economici, decisioni politiche che incidono sulla salute delle popolazioni locali, sulle migrazioni e, in ultimo, sul livello di democrazia del nostro Paese.
Per approfondire:
Rapporto Periodico sul Risichio posto alla Popolazione Italiana da Frane e da Inondazioni. Anno 2024 – Polaris, Dipartimento Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’Ambiente del Centro Nazionale Ricerche
La crisi idrica in Italia e il suo impatto sull’economia – Simona Mazza, Il Giornale dell’Ambiente, 11 agosto 2024
Giornata mondiale desertificazione, nuovi dati Greenpeace: in Italia inverni sempre più caldi e suoli più poveri d’acqua – Greenpeace Italia, 17 giugno 2024
Il consumo di suolo in Italia non è ancora una priorità – Luca Martinelli, Altreconomia, 3 dicembre 2024
Consumo di suolo in Italia, danni economici per oltre 400 milioni di euro l’anno – Eticasgr, 15 gennaio 2025
Forse è un laboratorio6, forse un semplice caso di studio accademico: l’Italia rappresenta un esempio perfetto per misurare il grado di securitizzazione della crisi climatica globale, dall’alto della posizione di Paese che non è né povero, né in via di sviluppo né ricco e potente. Un Paese che non ha idea di un proprio, autonomo, modello di sviluppo culturale, sociale, politico o economico e che, per questo, si fa servitore di chiunque abbia due spicci da spendere per calzare l’Italico Stivale, anche quando ciò significa cancellare i diritti del proprio popolo e violentare il sacro suolo patrio. Anzi, soprattutto in questo caso.
Da questa posizione derivano scelte politiche giudicate strategiche come i tagli alla spesa sociale e il parallelo aumento della spesa per mantenere in vita il complesso militar-industriale, destinatario di fatto anche dei fondi per la tutela di un territorio che cade a pezzi per effetto del cambiamento climatico e della speculazione cementifero-edilizia7 tipica dell’Italia, di cui il regista Francesco Rosi si occupa già nel 1963 ne Le mani sulla città. L’ultimo esempio in ordine di tempo è il ponte sullo Stretto di Messina: una Grande Opera Inutile – anche dal punto di vista ambiental-geologico – con cui i gruppi del Potere politico-economico, nazionale ed internazionale mantengono i propri rapporti occulti con ‘ndrangheta e cosa nostra e rimangono membri fedeli del Potere atlantico, cui il Ponte serve per spostare con più facilità armi ed eserciti all’interno dei corridoi di mobilità militare europea.
Per approfondire:
La leggenda nera del Ponte sullo Stretto e «l’asse ‘ndranghetistico mafioso» - Fabio Benincasa, Corriere della Calabria, 7 febbraio 2024
Perché il ponte sullo stretto di Messina sarà un grande affare per le mafie – Vincenzo Musacchio, Huffington Post, 26 luglio 2023
Wikileaks, Usa:”Ponte sullo stretto grande beneficio alla mafia” – il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2011
Appare difficile definire frutto del caso il dato che queste politiche siano sviluppate in un Paese dove investono – e dunque decidono gli indirizzi politici generali – BlackRock, Vanguard e StateStreet Capital, 3 dei 4 fondi di investimento che «hanno comprato il mondo intero» e, riporta un articolo di Altreconomia del 30 marzo 2022, finanziano allo stesso tempo tanto le industrie climalteranti e responsabili della crisi climatica quanto l’indotto della criminalizzazione dei corpi migranti e la militarizzazione dei confini.[Cashing in on crisis, .pdf].
Per la riuscita di questo piano politico servono governi attraverso cui controllare il Paese con la paura e la repressione del dissenso – i “sindaci-sceriffi” dem sono in questo perfettamente intercambiabili con i nipotini della fiamma oggi al governo nazionale – in una strategia che oggi viene codificata nel ddl1660 e che non mira affatto al ritorno del fascismo, mai davvero epurato dall’amministrazione italiana, quanto a mantenere l’Italia nel purgatorio di un Paese che vorrebbe essere potenza ma che, per esserlo, continua a chiedere il permesso alla consorte americana8, pena le bombe, gli attentati e i leader politico-imprenditoriali messi fuori gioco dai proiettili e dai bluff giudiziari solo per aver provato a portare l’Italia in posizioni di minor sudditanza. Per dirla con Nick Buxton ed Ali Rae: «della sicurezza di chi stiamo parlando?».
In un’epoca in cui le nazioni giustificano la guerra sulla base di supposti benefici per la sicurezza, danneggiare il pianeta non è una gigantesca minaccia alla nostra sicurezza collettiva?
Nuovi padroni per vecchie ricette: quel senso ottocentesco del mondo edit. 2025
Rispondere a questa domanda è un posizionamento politico. Non può essere altrimenti. Perché nel futuro che stanno costruendo i gruppi del Potere economico-politico la risposta è «sì», danneggiare il pianeta è «una gigantesca minaccia alla[…]sicurezza collettiva», forse la più ampia e completa che possa essere mossa contro le classi “pericolose”, contro terre a svantaggio che sono sempre meno prerogativa della parte povera del mondo. Il piano di quei gruppi è esattamente questo.
Che Elon Musk sia stato scelto da quegli stessi gruppi come “gran visir” – o come Presidente “occulto”? - della nuova amministrazione Trump non è un caso, anzi. È, di contro, la manifestazione di un progetto politico che ha l’esplorazione dell’Universo e la sua futura colonizzazione come obiettivo finale per le classi privilegiate della società. La futura guerra in Georgia – che si sta sviluppando sotto la stessa sceneggiatura della guerra in Ucraina - o il conflitto diretto tra Washington e Pechino che si giocherà anche sul futuro di Taiwan, sono elementi di un ampio progetto di instabilità sociale ed ambientale che mira a rafforzare l’alleanza del Potere armiero-petrolifero attraverso pratiche di governo che variano dall’aumento della spesa militare, l’invenzione del nemico e forme sempre più stringenti di eugenetica dei comportamenti.
In questo scenario, shock economici e forme di vecchio colonialismo rispolverato all’uopo per demolire ciò che resta del diritto internazionale, smantellato sotto i colpi dell’impunità israeliana in Medio Oriente, potrebbero presto concentrarsi non solo sui governi “disobbedienti” agli ordini, alle necessità e agli obiettivi economico-finanziari del Potere atlantico – come mostra la campagna antirussa nell’est Europa iniziata con l’Ucraina – ma anche verso quei Paesi dove l’instabilità dettata dalle crisi climatico-ambientali andranno a saldarsi ad una «debolezza di base delle capacità del governo» e a «preesistenti fattori di stress come conflitti etnici o carenza di governance9», come sottolinea Neta Crawford nel suo intervento per “All Hail the Planet”.
Ancora una volta il nemico della società atlantica rimane il migrante, posto all’intersezione tra la vecchia condizione di cittadino delle terre sfruttate e la necessità di fuggire da territori colpiti da crisi climatiche e ambientali. Sarà questo lo spauracchio da agitare davanti agli occhi del cittadino-(e)lettore dei Paesi ricchi e sfruttatori, che si agita in nome di una falsa idea di “decorosità” e della necessità evangelica di esportare il nostro sistema di valori nel resto del mondo. È però un progetto politico-culturale precario, destinato a cadere nel momento in cui anche quello stesso cittadino “decoroso” sarà costretto a migrare per gli stessi motivi di chi, oggi, arriva ai confini militarizzati della urFortezza.
Per approfondire:
“Introduzione all’Architettura dell’Oppressione” – approfondimento esclusivo di Inchiostro Politico, 6 marzo 2024
“Educati all’oppressione” – approfondimento esclusivo di Inchiostro Politico, 7 marzo 2024
“Malvenuti nell’urFortezza” – approfondimento esclusivo di Inchiostro Politico, 8 marzo 2024
“La società sanificata degli sciami digitali” – approfondimento esclusivo di Inchiostro Politico, 9 marzo 2024
Caso studio/2 – Siria: fa più danni il clima o il Fondo Monetario Internazionale?
Ali Rae e Nick Buxton portano nella discussione il “caso” della guerra civile in Siria, iniziata nel 2011 ed ignorata ad intervalli regolari dai latifondi mediatici atlantici fino al dicembre 2024 quando, all’improvviso, il pluridecennale regime della famiglia al-Assad (1971-2024) cade per effetto di un colpo di stato guidato da una cellula di Al-Qaeda su patrocinio israelo-statunitense. Tra le cause scatenanti del conflitto c’è la grave siccità che colpisce il Paese tra il 2006 ed il 2010, da cui derivano diminuzione della produzione agricola e aumento dei prezzi dei generi alimentari.
Nonostante il forte impatto sulla locale classe agricola, mette in evidenza Buxton, non ci sono prove che questa abbia fattivamente partecipato alla rivolta contro il vecchio regime e, soprattutto, che vi avrebbe preso parte come forma di protesta contro crisi climatica e immobilismo del regime. Prove si trovano nell’impatto diretto che la rimozione dei sussidi agricoli, voluta negli stessi anni dal Fondo Monetario Internazionale, ha avuto sulla produzione e sull’indotto agricolo nazionale. «Ma tu non sentirai i generali militari incolpare l’FMI per la guerra in Siria», conclude Buxton.
Anche Marwa Daoudy conferma che, a differenza delle politiche imposte dal FMI, la crisi climatica in Siria non ha trovato cittadinanza nelle istanze popolari che portano alla rivolta prima e alla guerra “conto terzi” poi. Al contrario, sottolinea la professoressa nella sua intervista con Ali Rae, una guerra guidata da forze straniere diverse, per gli interessi geopolitici sul Paese, ha rinchiuso i migranti climatici in «slums», lasciando le loro istanze di rivendicazione «completamente trascurate dalle autorità locali».
Il giogo sporco del clima come arma militare
Se il cambiamento climatico non è il fulcro della rivolta popolare in Siria né della successiva guerra che porta alla caduta del regime, si chiede Buxton, perché diventa un fattore particolarmente rilevante nella narrazione del conflitto? La risposta va cercata: 1) nella volontà dei gruppi economici e politici del Potere atlantico di destinare sempre maggiori risorse al complesso militar-industriale; 2) nella necessità di creare le condizioni narrative più vantaggiose affinché le popolazioni “democratiche” accettino interventi bellico-umanitaristi nei Paesi che non si adeguano al gioco grande del Potere10 atlantico. O al suo giogo, a seconda del punto geografico da cui si osserva.
“Securitizzare” le crisi climatiche è un piano politico preciso, che non ha alcun punto di contatto con la volontà di risolvere i danni del pianeta e del modo in cui l’essere umano lo abita. Nessuno può davvero credere che il riscaldamento globale si raffreddi a colpi di proiettili, droni, muri di sorveglianza e aumento della spesa militare, che è invece uno dei principali fattori ad accrescerne i problemi. Lo stesso IPCC sostiene come la correlazione tra guerra e cambiamenti climatici sia solo un capitolo di una Storia ben più grande. Ma se la risposta adottata dai gruppi di Potere è quella militare – sia a livello operativo che culturale – le lotte popolari devono sviluppare una vera e propria grammatica dell’antipotere, saldando ambientalismo e antimilitarismo in un’unica lotta.
L’Unione-Fortezza delle Commissioni e dei governi prova, proprio in questi giorni, ad evitare i dazi statunitensi alle esportazioni promettendo al Presidente Trump di aumentare la spesa militare e, per logica conseguenza, premendo su una Unione sempre più militarista, autoritaria ed escludente. Promettendo una Fortezza “eterna“, appunto.
In questo quadro, guardando proprio alla lectio di Washington, persino la Guerra diventa un’azione ambientalista: si parla sempre più di “green wars”, si promuovono senza provare vergogna alcuna proiettili che vengono definiti “benigni” per l’ambiente (“environmentally benign ammunitions, in inglese) perché la loro punta è costruita con un materiale più rispettoso dell’ambiente. Perché, in questa strana riscrittura distopica, se la Guerra e gli eserciti diventano difensori dell’ambiente, uccidere può essere considerata un’attività eco-friendly, no?
Questo articolo fa parte della serie "GreenWarZone", l'approfondimento di Inchiostro Politico sull’impatto del complesso militar-industriale sull’ambiente. Trovi tutti gli articoli dell’approfondimento nella specifica sezione in homepage. I grassetti nelle citazioni sono miei, dove non diversamente specificato
Note:
Enzo Ciconte, “Classi pericolose. Una storia sociale della povertà dall’età moderna a oggi”, Bari-Roma, Laterza, ed.2022
Traducibile in italiano come “Ricerca e salvataggio” o “Ricerca e soccorso”, il termine indica l’insieme di operazioni di soccorso che vengono effettuate in situazioni di pericolo o ambienti ostili, che siano sulla terraferma o in mare. Oggi questo termine indica soprattutto operazioni svolte per lo più nel mar Mediterraneo, e in particolar modo nel Canale di Sicilia, per fermare i migranti alle porte dell’Europa e rimpatriarli nei Paesi del Nord Africa.
Organizzazione non governativa internazionale fondata nel 1998 dal Consiglio norvegese per i rifugiati a Ginevra allo scopo di monitorare e fornire dati e analisi sulla condizione delle persone che migrano all’interno dei loro stessi Paesi (“migrazioni interne”, internally displaced persons o IDP, in inglese) o che sono a rischio migrazione . Il Consiglio norvegese per i rifugiati (NRC, nell’acronimo inglese) è una organizzazione non governativa indipendente antirazzista che fornisce aiuto legale e assistenza sociale a richiedenti asilo e persone rifugiate in Norvegia, senza tener conto del motivo della migrazione
Gruppo scientifico creato dall’Onu già nel 1988 dalla collaborazione tra l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente per studiare il riscaldamento globale e i suoi effetti. I rapporti periodici che l’IPCC realizza sono la base scientifica per accordi internazionali come il Protocollo di Kyoto o la Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici
Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica (Irpi) del Dipartimento Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’ambiente, istituito come ramo del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr)
“L’Italia è stata il più grande laboratorio di manipolazione politica clandestina. Molte operazioni organizzate dalla Cia si sono ispirate all’esperienza accumulata in questo Paese e sono state utilizzate anche per l’intervento in Cile”, così William Colby, direttore della Central Intelligence Agency dal 1973 al 1975 e, negli anni ‘50, responsabile dell’Agenzia in Italia
Per approfondire puoi leggere anche: Marco Preve, Ferruccio Sansa, “Il partito del cemento. Politici, imprenditori, banchieri. La nuova speculazione edilizia”, Milano, Chiarelettere, 2008
“La moglie americana e l’amante araba” è una formula con cui negli anni della Prima Repubblica si riassumeva la strategia tenuta dai governi italiani in politica estera con cui facevamo da testa di ponte per la Nato nel mondo arabo e, in particolare, in quell’universo di sigle della Resistenza palestinese dedite alla lotta armata
L’insieme di regole, principi e meccanismi che regolano il governo di una società, una istituzione o, come nel caso specifico, uno Stato
Sandra Bonsanti, "Il gioco grande del Potere", Milano, Chiarelettere, 2013. La definizione da cui è tratto il titolo del libro è mutuata da una frase del giudice Giovanni Falcone